L’ALTO MEDIOEVO

In Italia si deve constatare come nel desolante panorama delle devastazioni e del decadimento, seguito alle invasioni barbariche, una certa cura degli infermi sussista, quale opera di pietà, nelle istituzioni ecclesiastiche e nei centri conventuali. È merito di San Benedetto da Norcia aver fondato una serie di conventi e abbazie, fra cui quella di Montecassino (529 d.C.), ove, secondo la Regola: “Infirmorum cura ante omnia et super omnia…” viene privilegiata. Vi è, quindi, il Pater infirmarius, a ciò addetto, e vi è, anche, una farmacia ed una biblioteca ove antichi testi medici sono conservati.

 

Un ignoto amanuense trascrive, in caratteri gotici beneventani, in doppia colonna, su di un codice pergamenaceo di materia medica l’ “Anonymi varia excerpta”, una singolare ricetta in lingua latina per la preparazione dell’ “Ynpnoticum adiutorium” e cioè rimedio soporifero ad uso di chi deve essere sottoposto all’intervento chirurgico, acciocché, addormentato, non senta dolore al taglio. Riportiamo di esso la traduzione: “Aiuto ipnotico, cioè soporifero, è utile a coloro i quali si curano per mezzo della chirurgia, in maniera che, addormentati, non sentano il dolore del taglio. Si prendano queste cose: mezza oncia di oppio tebaico, 8 di succo di mandragora (tratto) dalle foglie spremute, mezza oncia di succo della verde erba di Matala, e di succo di verde giusquiamo, raccogli così, per mezzo di una spugna essiccata, un’unica pasta e diligentemente lascia asciugare; e quando vorrai farne uso a mezzo della stessa spugna per un’ora immergila in acqua calda e avvicinala alle narici ed avvertirai il paziente che da sé stesso assorba quella essenza per dormire a lungo e, quando lo vorrai risvegliare, applicherai alle sue narici un’altra spugna imbevuta di aceto caldo e potrai, così, scacciare il sonno”.

 

La medicina monastica riempie un vuoto di secoli, se non vuoto assoluto, una carenza determinata dalla progressiva rarefazione dei medici laici e dalla cessazione delle scuole mediche. A fronte di tale carenza l’autoproposizione di improvvisati guaritori, di ciarlatani e simili. Il Pater infirmarius raramente è un medico che ha preso i voti, ma, comunque, ha dalla sua una base culturale di una certa validità e, anche, la possibilità di consultare i testi dei maestri dell’antichità. Dispone, inoltre, di farmaci ben preparati e di ambienti di ricovero che rispondono, quanto meno, ad elementari requisiti igienici, può contare sull’aiuto degli altri fratelli e si giova di quella che può essere definita, a seconda dei casi, “la terapia collaterale o anche fondamentale”: la preghiera, la meditazione, una dieta, generalmente, adeguata. Gradatamente i vari Concili vieteranno la pratica assistenziale medica in quanto motivo di abuso, di non rispetto della pudicizia, di evasione dalla Regola.

 

LA SCUOLA SALERNITANA

Fulgida espressione della rinascita medica è, in Italia, la Scuola Medica Salernitana. Salerno era sede di più ospedali, il più antico dei quali era quello benedettino, fondato nell’820 dall’arcidiacono Adelmo cui seguirà, nel 1183, altro maggiore, costruito con le rendite lasciate da Matteo d’Aiello, gran cancelliere dell’imperatore. Vi è, quindi, una connotazione particolare, direi ideale, per la nascita e sviluppo di una scuola medica che assurgerà a fama particolare e preluderà alla nascita e sviluppo delle Università. Secondo la leggenda nasce dall’incontro di quattro esponenti, rispettivamente della cultura medica latina: Magister Salernus; ebrea: Elinus; greca: Pontus ed araba: Adelus. Nella realtà riteniamo si innesti, in una, non sopita, tradizione medica greco-romana, l’energico apporto della cultura araba ad opera di Costantino l’Africano, segretario e consigliere di Roberto il Guiscardo, conquistatore normanno della città, dopo un assedio protrattosi per otto mesi. Costantino si ritirerà ben presto, quale monaco, nella pace dei chiostri abbaziali di Montecassino ove procederà, fino al momento della morte, avvenuta nel 1085, alla compilazione delle sue opere fra le quali i “Pantegni”, suddivisi in 12 libri contenenti tutto lo scibile medico e procedendo, quindi, alla versione in latino di molte opere greche, già tradotte in arabo. Indubbio il fatto che, con la sua paziente opera, la già rinomata biblioteca abbaziale si sia arricchita di molti volumi. Del resto il desiderio di conoscenza delle opere della medicina araba era tale, in quel periodo, da indurre l’imperatore Federico Barbarossa ad inviare a Toledo, nel 1170, Gherardo da Cremona per intraprendervi la traduzione del Canone di Avicenna. Gli storici hanno suddiviso questo particolare periodo di risveglio e germinazione del pensiero medico, nell’Italia meridionale, nei seguenti periodi:

  • precostantiniano, dalle origini all’anno mille, in cui si afferma l’insegnamento dei tre medici ed ecclesiasti: Alfano, vescovo, Garioponto, subdiacono e Pietro, clerico, oltre a quello delle note famiglie mediche dei Cofoni e dei Plateari;
  • secondo periodo, o del massimo splendore, dal 1100 al 1300
  • terzo periodo, o della decadenza, che può venire protratto, addirittura, fino al XIX secolo.

La Scuola Salernitana costituì un singolare fenomeno di riaccensione e focalizzazione di interessi chirurgici e medici, sostenuti da una serie di fattori che si autopotenziarono a vicenda fra i quali, oltre alla particolare salubrità del clima, l’alta concentrazione di malati, e non va dimenticata la vicinanza di Amalfi, base di rientro dei crociati, la presenza e vicinanza di più centri culturali, il costante flusso di medici arabi, ebrei e greci. Contribuì, anche, quel singolare fenomeno rappresentato dall’elevato numero di “famiglie” dedite alla medicina come quella dei Cofoni, dei Ferrario, dei Plateari, eccetera, fra i cui membri non mancarono gli autori di affermati testi medici. Infine l’altrettanto singolare fenomeno delle donne-medico: Trotula, Abella, Mercuriade, Calenda, Guarna, eccetera, che riteniamo veramente caratteristico di questa Scuola. Tutto ciò fece di Salerno una Civitas Hippocratica, sede di una Scuola medica la cui fama non mancò di suscitare l’interesse di un imperatore illuminato, quale Federico II che, nel 1224, regolamentando e, nel contempo, validando l’esercizio dell’arte medica, stabilisce che la verifica finale venga esercitata, dopo cinque anni di studi, preceduti da tre di logica, da una pubblica commissione di Maestri salernitani. Per la chirurgia è necessario un anno di studio e la frequenza dei corsi di anatomia. Si può, quindi, affermare che il risveglio degli studi medici e la nascita delle nuove prestigiose Università derivi, non solo cronologicamente, dalla Scuola Salernitana, elevata, nel 1231, ad Università da Federico II e soppressa, nel 1811, da Gioacchino Murat. Molti sono i meriti di questa Scuola nel campo dell’insegnamento, e, in specie, quelli di natura igienica preventiva e terapeutica, in un’epoca in cui era stato dimenticato quanto avevano realizzato i romani in tema di igiene pubblica, di dietetica, di sanità di vita. Una serie di dettami, condensati nel “Regimen Sanitatis Salerni” o “Flos Medicinae Scolae Salerni”, costituirono, per non meno di due secoli, il compendio del sapere medico. Il tutto facilitato da un latino non particolarmente ricercato ma neppure, smaccatamente maccheronico. L’opera, forse commissionata, è dedicata al re di Inghilterra, cui vengono dedicati ben 59 precetti, fra i quali di un certo interesse antalgico, il IV: “Quatuor ex vento veniunt in ventre retento: spasmus, hidrops, colica, vertigo: quator ista” e cioè che dai flati nel ventre trattenuti, quattro sogliono uscire “acerbi mali: dolore spasmodico, idropisia, colica dolorosa e penosa vertigine”. Nel V si prevede la possibilità che “Ex magna coena stomacho fit maxima poena”; la salvia conforta i nervi, la senape toglie il veleno, la viola giova alla cefalea ed alla pesantezza, l’or- tica è valida contro i dolori articolari, il pulegio dovrebbe curare la gotta, mentre il pepe risulta utile nel dolore degli attacchi di tosse. Vi sono anche ricette contro il dolore dei denti per il quale viene raccomandato, oltre al giusquiamo, la fumigagione delle cavità cariose.

Molte raccomandazioni sono lapalissiane, come la cura della cefalea da ingestione di troppo vino: occorre smettere di bere, per quanto dissenta Bartolomeo da Salerno nella sua “Practica” che raccomanda, invece, di ungere la fronte con olio di pioppo o di rose o con aceto unito ad albume d’uovo, oltre al pediluvio con decotto di papavero, giusquiamo e sempreviva. Forse più interessanti e pertinenti rimedi troviamo nell’“Antidotarium” di Nicolò Salernitano, nato quale formulazione di rimedi, cui ricorrere in caso di avvelenamento. Uno di essi, dal suggestivo nome: “Requie magna”, lo troviamo riportato nel famoso Ricettario fiorentino. Vi è, anche, la formula di una Spongia somnifera ricalcante quella Cassinate, ma arricchita con nuovi composti e nuovi suggerimenti e, soprattutto, con una più robusta dose di oppio. Una, a nostro avviso assai importante innovazione, troviamo nel “Compendium” di Magister Salernus, famoso chirurgo: “È da rilevare che l’oppio, il giusquiamo e la mandragora producono una profonda sonnolenza, a causa della loro grande umidità, se fate con esse un cataplasma e lo ponete sul luogo dell’incisione o dell’operazione esso abolirà completamente la sensibilità per cui il dolore di qualunque specie non viene avvertito!” Si tratta, quindi, a tutti gli effetti, di una anestesia topica, suggerimento che verrà ripreso, in seguito, da alcuni medici arabi. In campo chirurgico opportuno ricordare come Ruggero da Palermo tenne, per molti anni, regolari corsi e formulò, unitamente ai suoi allievi, la “Chirurgia Rogerii ” che per la sua chiarezza, schematicità e concisione riscosse grandissima fama, tanto da venire adottata, quale libro di testo, nelle Università di Bologna e di Montpellier.

 

NASCITA E SVILUPPO DELL’UNIVERSITA’

La Schola e lo Studium di Salerno furono fenomeni particolari in quanto, in un’epoca di assoluta carenza di insegnamenti medici, rap- presentano una orgogliosa voglia di censimento, di restaurazione dello scibile medico e del suo arricchimento con le nuove nozioni acquisite dalla cultura medica araba. I medici salernitani, a partire da Costantino l’Africano, con le loro opere fecero, per così dire, il punto sulle conoscenze mediche fino a quel momento acquisite, bilancio necessario ed indispensabile per poter esercitare scientificamente l’arte medica e poter ripartire per nuove acquisizioni, assimilando quanto di innovativo avevano raggiunto gli arabi, partendo dalla comune matrice greco-romana. Di ciò si giovò tutta l’Europa ed acuì il bisogno di passare, dai modesti insegnamenti singoli, ad un insegnamento più organico, organizzato, completo. Non tarderanno a rendersene conto, attraverso i suggerimenti dei loro consiglieri, imperatori, re, papi, liberi comuni, che vedono, nella possibilità di organizzare insegnamenti collettivi, il possibile rafforzamento dell’autorità centrale, specie nella prospettiva della validazione dei risultati, con il conferimento di un documento ufficiale di laurea, i vantaggi dell’afflusso di nuovi cittadini, la disponibilità di un numero maggiore di professionisti di cui potersi servire, a tutti gli effetti. In campo medico vi era, poi, la necessità di provvedere ai bisogni sanitari dei popoli cui non poteva far fronte l’esiguo numero dei medici praticanti. Così a Parigi non sembra vi fossero nel 300 più di una mezza dozzina di medici, a Milano e Venezia, città assai popolose, 28. Da ciò il fatto che la professione di medico era divenuta appetibile, ma come diventare medico se non vi sono scuole e se i pochi medici esistenti non hanno né tempo, né voglia, né autorità di insegnamento? Vi erano profonde limitazioni nell’Arte, in quanto occorreva cautelarsi dalle vendette dei familiari nei casi ad esito non felice. Da qui l’estrema prudenza e genericità e delle diagnosi e, ancor più delle terapie ed un, assai ampio, ricorso alle invocazioni ai santi ed alla divinità, oltre ad uno sguardo all’astrologia. Tutto ciò rallentava e rendeva meno incisivo l’intervento terapeutico.

Fra i Maestri chiamati ad insegnare nello Studio vi è la singolare ed innovativa figura di Ugo dei Borgognoni, detto anche Ugone da Lucca, ove era nato nella seconda metà del XII secolo. Il comune di Bologna gli offre, nel 1214, un posto stipendiato, istituendo così, forse, una delle prime condotte mediche di cui si ha memoria. Deve prestare gratuitamente la propria opera agli indigenti e, qualora vi sia guerra, deve seguire l’esercito. Ciò accade in occasione di una crociata e, in Terra Santa egli ha occasione di occuparsi della traumatologia bellica e di curare le ferite, fino ad allora trattate secondo l’insegnamento galenico della guarigione per seconda intenzione, con lunga e debilitante emissione di pus. Concetto che egli assolutamente non condivide, preferendo un “medicar pulito”, applicando sulla ferita stoppa imbevuta di vino e non frequentemente cambiata ritenendo, nella sua “Cyrurgia filia principis”, che ciò “… sarebbe del tutto fuori natura e prolunga la malattia ed è contro la guarigione e la cicatrizzazione della ferita”. Tornato a Bologna insegna lungamente la chirurgia in quello Studio di cui è Maestro, raggiungendo una assai meritata fama, anche attraverso le opere dei suoi allievi, fra i quali molti studenti stranieri, come Henri de Mondeville, che sarà docente di anatomia e di chi- rurgia a Montpellier e, quindi, archiatra di Filippo il Bello, succedendo, in questa carica, a Guido Lanfranchi. Sempre teso alla riduzione delle sofferenze, cerca di mitigare quelle connesse all’atto operatorio, ricorrendo, nuovamente, all’impiego della Spongia somnifera di Nicolò salernitano, elaborando una sua preparazione, o Confectio soporis, dalla seguente composizione: “… prendi oppio, succo di more acerbe, giusquiamo, succo di coconidio, succo di foglie di mandragora, succo di edera rampicante, succo di mora silvestre, semi di lattuga, semi di lapazio, che ha bacche dure e ritonde e cicuta nella quantità di un’oncia per ognuno dei suddetti”. Si tratta, indubbiamente, di una riesumazione delle spongie di Montecassino e della scuola salernitana, forse la novità è il suggerimento al paziente di aspirarne gli effluvi, e non soltanto di suggere i liquidi, di impiegare una spugna non lavata in acqua dolce, affinché mantenga inalterato il suo elevato potere igroscopico, l’aggiunta di succo di coconidio e di lapazio, di cui, peraltro, ignoriamo le proprietà.  È certamente difficile per noi ritenere che l’inalazione e l’eventuale suzione siano sufficienti alle necessità operatorie dobbiamo, però, pensare che, all’epoca, non vi era nulla di meglio e che gli operandi erano, generalmente, assai debilitati dalla loro patologia e, forse, ancor più, dai tentativi terapeutici, precedentemente posti in atto, mediante estenuanti salassi, emetici e purganti. D’altra parte il tentativo di una maggiore efficacia, aumentando la posologia dell’oppio, era naufragato per alcuni casi mortali, attribuiti a medici ebrei piemontesi. Non sono mancate polemiche antiche e recenti su questa paternità italiana della anestesia per inalazione, rivendicata da storici tedeschi a Heinrich von Pfolspeundt, che l’avrebbe messa in atto 170 anni prima che Teodorico dei Borgognoni, figlio di Ugo, ne scrivesse nella sua opera, dedicata agli insegnamenti del padre.

 

Sull’esempio di Bologna molte altre città, ed in primo luogo Padova, si dotano di Università che raggiungono fama tale da attirare, da tutta Europa, studenti desiderosi di apprendere ciò che rinomati maestri insegnano secondo programmi ordinati e razionali. Le Università, gradatamente, supereranno il distacco fra l’insegnamento teorico, basato pressoché esclusivamente su ciò che avevano scritto i grandi del passato, e quello pratico al letto del malato. Così Mondino dei Liuzzi scende dalla cattedra per avvicinarsi al cadavere a verificare quanto scritto. La progressiva acquisizione di nuove conoscenze e, in particolare di certi sintomi ricorrenti, porterà al riconoscimento ed identificazione di particolari morbi ai quali, non sempre, si adatterà la assai comoda e metodica teoria degli umori e della materia peccans. Il processo richiederà, tuttavia, secoli per chiarire l’eziologia e sottrarla alle congiunture astrali, alle sue restrizioni, alle magie e, indubbiamente, lo spettro dell’Inquisizione giocherà il suo ruolo, come nel caso di Pietro d’Abano, ma, ancor più, fattivo ed incisivo il ruolo delle Università. Il risveglio degli studi anatomici aveva portato alla conferma, da parte di Guglielmo da Saliceto, della esistenza di varie specie di nervi, fra cui quelli addetti ai moti volontari e quelli, viceversa, per i moti involontari. Dobbiamo renderci conto del fatto che, allorché un paziente colpito da violenti dolori, dopo aver esaurito tutta una serie di rimedi empirici di origine domestica e quelli suggeriti dagli amici, fra cui l’usuale toccasana della “doglia colica” e cioè la zampa di lupo legata al collo, chiamava un medico questi lo considerava affetto da malattia da discrasia umorale. Una malattia che, o per frigidità o per calidità, agiva sugli umori alterandoli nella qualità o nella quantità. Conseguenza di ciò è la formazione della “Materia peccans” la quale deve essere modificata per “cozione” dal naturale calore dell’organismo, sul quale, eventualmente si può agire. Fine ultimo di questa serie di processi, codificati in: principium, augmentum, status, declinatio è, appunto, la “decoctio maxima” della materia peccans che può, finalmente, venire eliminata spontaneamente o attraverso i purganti, i clisteri, gli emetici che l’arte medica suggerisce e somministra. Qualora ciò non sia sufficiente, intervenga il cerusico a salassare! Risulta difficile supporre che un malato, debilitato dalla sua patologia, ed ancor più dalla terapia, continui a lamentarsi per il dolore, a meno che non si tratti di fratture o di calcoli ed allora intervenga ancora il cerusico più dotto, e non il barbiere, con le sue trazioni, riduzioni ed immobilizzazioni con albume d’uovo o con l’incisione per il male della pietra. Il farmaco nuovo da provare, farmaco universale, idoneo a tutti i mali, è la “Teriaca” già concepito dagli Antichi quale antidoto ai veleni, cui il grande Galeno ed Altri avevano mano a mano aggiunto altri composti. Secondo lo statuto degli speziali toscani la teriaca doveva essere preparata pubblicamente, talora alla presenza di particolari delegati che ne dovevano attestare la genuinità e conformità, oltre alla prova, in corpore vili, della sua efficacia nei confronti di un gallo morso da una vipera. Qualche utile spunto, sulla cura dei dolori artrosici, troviamo in Pietro d’Abano per l’idro e fangoterapia, così congeniali alla sua terra. Il celebre Taddeo Alderotti, dello studio bolognese, ripete sì la classificazione galenica delle varie forme di dolore in: “Aggravativus, congelativus, corrosivus, mordicativus, pulsativus, pungitivus” per con- cludere, negativamente, sulle reali possibilità terapeutiche. Comunque, almeno nel settore chirurgico, il seme era stato gettato e dalla Scuola Salernitana e dallo Studio bolognese: almeno per il dolore chirurgico si può fare qualcosa!

 

Si può fare qualcosa anche per il dolore post operatorio, attraverso l’applicazione degli oli ed unguenti analgesici, e non è poco! Una certa fama è stata riconosciuta nella storia della medicina ad una badessa benedettina santificata dall’opinione comune ma non dalla Chiesa: Hildegard von Bingen, in quanto propositrice di una formula di eutanasia attiva, a base di foglie e radici di aaron, erba che determina una morte tranquilla. La pietosa religiosa era stata indotta a tale proposizione dall’osservazione degli atroci dolori cui andavano incontro gli appestati allorché si sviluppavano i tremendi bubboni. A giustificazione di quanto suggerito va fatto presente che la mortalità per peste era elevatissima e sussistevano ben poche possibilità di salvezza. Tratta del dolore da cause interne ed esterne Bernardus Gordonius con chiare assonanze galeniche e di Avicenna, ritornando sul concetto del dolore “già di per sé stesso morbo”. Nella terapia associa, saggiamente, ai narcotici i clisteri di altre sostanze, forse a ridurne la tossicità. Arnaldo da Villanuova, nella sua “Opera omnia” propone, contro la cefalea occipitale l’incisione della vena anteriore della fronte riprendendo un concetto ippocratico. Meno chiaro il suggerimento del “sedare dolorem per ablucionem sensus”. Alcune ricette antalgiche, peraltro assai poco attendibili, sono reperibili nel “Libro di Sidrach”, come riporta Rizzi.

 

Larga applicazione trovarono, in questo periodo i cataplasmi da applicare, soprattutto, sulle ferite. Quelli a base di Oleum mandragolatum vennero ampiamente prescritti da John Gaddesden, docente nell’università di Oxford e da Bartolomeo da Varignana, che fu archia- tra di Arrigo VII. La preparazione, peraltro già elaborata dal medico salernitano Cofone dei Cofoni, poteva raggiungere un certo effetto per l’assorbimento, attraverso le ferite, di piccole quantità degli alcaloidi della mandragora. Si rimane, ancora una volta, colpiti dalla carenza o meglio povertà dei riferimenti alla sofferenza ed alla sua terapia che, tuttavia, doveva costituire una delle più pressanti richieste al medico che, nella realtà, aveva ben poche possibilità, salvo un buon ricorso all’oppio al cui ampio impiego sembra refrattario. Forse l’associazione ad altri estratti vegetali, quali il giusquiamo, la mandragora e la cicuta, non privi di componenti tossiche, tende ad un potenziamento oltreché ad un effetto suggestivo. Allorché vana o poco efficace si rivelava l’opera del medico, era giocoforza affidarsi all’opera del barbieri o ai domestici rimedi della corteccia di salice bollita, degli infusi di erbe, dell’applicazione del caldo, sotto forma di pietre o mattoni posti a scaldare in forno o alle misteriose preparazioni di fattucchiere e maghi, oltre che alle unzioni ed applicazione di sacre reliquie da parte di premurosi monaci. In Inghilterra verrà di moda fra il XIV e il XVI secolo la mistura “Dwale” nella cui preparazione figuravano il fiele di maiale, la cicuta, il succo di brionia, la lattuga, l’oppio e l’enbane, mescolati in vino. L’assunzione per os assicurava due giorni e due notti di sonno da cui ci si poteva risvegliare con frizioni alle tempie di aceto e sale. Come si vede impera, ancora, e non potrebbe essere altrimenti, il concetto biblico che solo il sonno profondo cancella il dolore. Non va dimenticato l’istintivo ricorso al vino, anch’esso analgesico blando, che può aumentare la sua potenza abusandone fino ad ottenere, ancora una volta, un sonno profondo. Con gli arabi era nata l’arte della distillazione, con essa, distillando vino, un maiorchino, destinato a divenire assai noto: Ramon Lullo o Raimondo Lullo, ottiene l’Aqua ardens vitae o Argentum vegetabile e dal solfato di rame l’acido solforico e da questo, secondo alcuni, ma nei suoi scritti non ve ne è traccia, l’etere o vetriolo dolce. Monica Longobardi ha ritrovato e pubblicato sull’Archiginnasio un frammento di ricettario medico del 300. L’anonimità di questo ricettario fa pensare che si tratti di notazioni personali di qualche medico o, più probabilmente, speziale dell’ambito bolognese. Colpisce la notazione che configura in calce ad un rimedio: “Eo si vidi una contusione de capo compore questo impiastro cum piaga ed era quivi lo nervo descoperto e grande dolore, lo quale restò sordo per questo”. La ricetta prevede, poi, la confezione di un impiastro a base di farina d’orzo, camomilla, melliloto, olio camomillino poi, allorché incomincia a seccare, aggiungere farina di fave, cumino, vino profumato ed un poco di aceto (sembra, quasi, un suggerimento per una gustosa zuppa!). Altra ricetta è quella a base di sugo e foglie di piantagine (Plantago maior), “remove lo dolore e schiva la mala conplexione” ed anche per questa assicura: “è vidi proare in piu persone,” ma non precisa con quale esito.

 

Altro impiastro è quello a base di camomilla, fieno greco, melliloto, farina d’orzo, rose, bollite in “bono vino”. Aggiunge poi farina di fave, olio camillino e aceto. Assicura di averne “vissuta la experientia per la deslocacione e in le contussione in uno conestabile a Bollogna”. In un solo caso descrive il risultato: “…io si vidi la experiencia in…e Borgogna allo quà optimamente zovò”. Unguento “bono alla rogna” ma, precisa “… el quale no siè provato” è composto con trementina, due uova fresche e olio rosato. Sorprende come su 22 rimedi ben 13 siano a finalità antalgica a testimonianza di una elevata richiesta lenitiva, prevedano la preparazione di cerotti. Vi è una sola ricetta a base stercoracea (stercho de collumbo) e in contrasto con la diffusa tendenza dell’epoca. Tra l’altro anche in questa si fa riferimento ad un caso clinico: “…facto per misere Biancho da Bollogna che ne le postema in lo cerebro, zovolli perfectamente”, (si trattava, forse, di ulcere del cuoio capelluto). Il papavero, pressoché omnipresente nelle ricette dell’epoca, figura solo in una di queste preparazioni sotto forma di “garugli” che, presumo, stia per capsule di papavero, certamente nostrano, in quanto precisa: “quanti tu voli” che “rugliano in l’acqua uno bono chiuse”.

 

Nel caso di affezioni particolarmente dolorose vi era, probabilmente, una sorta di percorso obbligato che vedeva, quale primo tentativo, il ricorso ai rimedi suggeriti dalle ave domestiche, successivamente ai consigli dello speziale o all’opera del medico. Quest’ultimo, poco proclive ad una visita diretta, faceva una diagnosi di eccesso o carenza di uno o più, dei quattro umori e prescriveva i farmaci del caso o il ricorso al salasso sul quale si insisteva fino a ridurre il malato in uno stato di tale debilità da non avvertire più la sofferenza. Allorché, però, il dolore era chiaramente attribuibile ad un calcolo vescicale o ad una gangrena l’iter era, ovviamente, più breve con un precoce ricorso al chirurgo che doveva anche conoscere ed attuare quei sistemi di analgesia che avrebbero consentito l’esecuzione della amputazione o l’incisione perineale. Così apprendiamo dal Boccaccio, nella decima novella della quarta giornata che Maestro Mazzeo della Montagna, dovendo “asportare un osso fracido ” dalla gamba di un suo cliente “avvisando che l’infermo senza essere adoppiato non sosterrebbe la pena, né si lascerebbe medicare, dovendo attendere sul vespro a questo suo servizio fa la mattina d’una sua composizione stillare (distillare) un’acqua la quale l’avesse, bevendo, tanto a far dormire quanto esso avvisava di doverlo penare e curare”. Questa “guastadetta” fu sì potente che gli lasciò “… nel cerebro una stu- pefazione che parecchi dì il tenne stordito”. Ciò fu, certamente, il male minore, infatti in un’epoca in cui il concetto posologico era piuttosto incerto il sovradosaggio doveva costituire una sorta di incubo e per il medico e lo speziale. Il pane di oppio si prestava, inoltre, a sofisticazioni e varianti a seconda delle varie regioni di produzione, elemento, questo, che accresceva l’incertezza. In proposito abbiamo avanzato l’ipotesi che il ricorso a più principi vegetali rispondesse alla necessità di arrivare ad un potenziamento degli effetti di una dose ridotta di oppio.