Ad una revisione a posteriori risulta chiaro che la cosiddetta medicina romana, di romana ha solo il nome, essa parla greco ed in Roma trova terreno fecondo anche per sviluppare nuovi concetti e tendenze di pensiero. Alcuni affreschi pompeiani raffigurano operazioni chirurgiche (Figura 1). Famosi medici di origine greca che lavorarono a Roma nell’età di Augusto furono Asclepiade di Prusa e il suo allievo Antonio Musa, un liberto che, avendo guarito l’imperatore Augusto, ottiene, come premio, il privilegio di portare l’anello d’oro e di venire effigiato nelle vesti di Asclepio.
Unico vero romano è Aulo Celso Cornelio ma egli non è un vero e proprio medico, almeno all’inizio ma, bensì, un coltissimo enciclopedico che dedica all’arte medica non meno di otto libri e può essere, anche, considerato uno dei primi storici della medicina. Di particolare interesse il richiamo ai segni dell’infiammazione: “Notae vero inflammationis sunt quatuor, rubor et tumor, cum calore et dolore” la descrizione dei clisteri nutritivi con l’avena ed il farro, la attenta medicazione delle ferite con sostanze antisettiche, come l’olio di timo, la trementina, il catrame e l’arsenico, il trattamento del dolore con il giusquiamo, la mandragora, il solanum e l’oppio. Accuratissimi gli insegnamenti chirurgici, specie in tema di amputazioni, di tonsillectomia, di estrazioni dentarie e di cataratta, l’exeresi del gozzo, il trattamento termale. Non si può non riconoscere nel “De Re Medica” di Celso, uno dei maggiori classici della trattatistica medica, mirabile anche per l’elegante semplicità della esposizione, l’assoluta chiarezza, l’assenza di ogni retorica, la piana esposizione in un elegantissimo latino. È il primo a parlare di “passio cardiaca propria” ed usa anche i termini “angina et angor”.
Impossibile non ricordare Plinio il Vecchio, elegante soldato, eccezionale enciclopedico, non medico ma che, da buon osservatore e cronista, riporta un impressionante numero di notazioni mediche nella sua “Historia Naturalis”. Per quanto ci interessa rileviamo la distinzione fra il succo strillante dalla capsula, che dà luogo al vero oppio, ed il “meconio”, ricavato dalle foglie tritate e bollite che “Decoquitur et bibitur contra vigilias”. Per la chirurgia occorre qualcosa di più di un bicchiere di foglie di oppio o di mandragora, attiva anche: “… contra serpentes et ante sectiones ut ne sentiatur”. Altra possibilità è la pietra menfitica che, con l’aceto: “obstupescit ita corpus, nec sentit cruciatum”. Riporta, inoltre, nel libro XXVII, l’uso della puntura e conseguente scarica elettrica della Torpedìne marina e, secondo le testimonianze delle più note. Molto probabilmente una qualche spiegazione può derivare dall’elevato contenuto di ammoniaca, ancora oggi prescritta a calmare il dolore della puntura di certi animali.
Ma il pilastro, la figura fondamentale che proponendo ed integrando quanto aveva scritto Ippocrate da corpo e struttura all’arte medica è Galeno, anche lui non romano essendo nato a Pergamo e, ove si forma presso il locale Asclepieo, perfeziona i suoi studi a Smirne, Corinto ed Alessandria. L’imperatore Marco Aurelio lo chiama a Roma e lo nomina suo medico personale e del figlio Commodo. Migliore presentazione non poteva avere questo fertilissimo autore che scriverà circa 400 opere, in greco poiché non amava il latino. Le sue opere verranno conservate, grandissimo onore, nel tempio della Pace ma periranno, in parte, in un rovinoso incendio. Uno dei grandi meriti di Galeno è quello dell’ampia visione che riserva ad ogni problema: di ogni organo studia la funzione associando la fisiologia alla anatomia, in modo da comprenderne la disfunzione patologica e proporne la terapia. Inoltre all’intuizione fa seguire la verifica dell’esperimento. Correttamente identifica nel cervello la sede delle sensazioni portate dai sottili nervi sensitivi che innervano anche gli organi interni. Descrive, anche, le catene simpatiche. In tema di sensazioni stabilisce il concetto che tutto il nostro sensorio è in dipendenza dell’anima, il pneuma è la forza che agisce negli organi e dà loro la virtù per percepire le sensazioni. Tre le forme di pneuma: lopychicon, lo zoticon ed il physicon. La malattia è una diatesi e cioè una condizione di lesione delle funzioni e, quindi, una discrasia. Attraverso un esame, assai minuzioso, dei sintomi si può risalire all’organo malato ed alle cause, possibilmente, da rimuovere. Il principio terapeutico generale è quello del “contraria contraris”, ma Galeno arricchisce particolarmente la disponibilità dei semplici vegetali (ben 473), di quelli animali e di quelli minerali. Potenziò ulteriormente la teriaca, ed introdusse l’uso della “picra”, purgante amaro a base di bile e la “hjera”, o purgante sacro e sovrano. Da ricordare, infine, come usasse preparare personalmente i farmaci e come da lui sia originato il termine “galenici” per indicare medicamenti “semplici”. Per quanto ci interessa ricorderemo, oltre alle nozioni sul sistema nervoso ed i collegamenti con gli organi di senso, la sua classifi- cazione dei narcotici a seconda della loro potenza: freddi in terzo grado (giusquiamo e mandragora) ed in quarto grado (papavero e oppio). L’oppio è da lui tenuto in altissima considerazione tanto da portarlo a solennemente affermare: “Sine opio medicina claudicat”. Il suo concetto del dolore è originale, razionale e risolutivo: il dolore non è solo il sintomo di un male ma è, di per sé, già malattia! Egli associa il dolore, soprattutto, al senso del tatto e che i dolori più intensi derivino da sue alterazioni, infatti, dagli organi che non hanno sensibilità non si avvertono dolori. Nella sua “Ars medicinalis”, tornando alla dottrina ippocratica, ritiene che dolore si generi dall’alterazione di una delle quattro qualità primarie del caldo, del freddo, del secco, e dell’umido mentre, da quest’ultimo non si ha dolore, dolore intenso, invece, può derivare dal caldo. Il termine “dolore” compare più volte nelle sue trattazioni, secondo il Pazzini ben 140 volte ed in 40 se ne prevede la possibile terapia. Assai rilevante la conclusione cui giunge nel “De LocisAffectis”: “è da stabilire, in primo luogo, se sia possibile eliminare il dolore perché con ciò non si eliminerà solo il sintomo dolore ma, bensì, la cura della stessa affezione cosa che, a sua volta, contribuirà ad alleviare il dolore”. È anche il primo a tentare di classificare le varie possibili graduazioni e caratteristiche del dolore in: lancinante, pungente, pulsante, tensivo.
Dopo Galeno cala, veramente, il silenzio, unico da ricordare, ai nostri fini, è Quinto Sereno Sammonico in quanto autore del “Liber medicinalis”, assai apprezzato dall’imperatore Alessandro Severo in cui figurano ricette “pro capiti medendo” (Figura 5), per l’emicrania, per le odontalgie, per i dolori ventrali, per quelli da calcoli, per quelli della coxartrosi, delle nevralgie e, del fuoco sacro, eccetera in cui, oltre alla celidonia, del genere delle papaveracee che, forse, qualche effetto ha, suggerisce il ricorso alla “Amica papavera somno” il cui effetto è indubbio. La sovrapposizione di piante, di occhi di gambero, di lombrichi, di formiche, eccetera, ne snaturano, invece, ogni attendibilità.. Sarà, inoltre, il ricorso ai talismani a scatenare l’ira dell’imperatore Caracalla che lo farà uccidere in quanto ne aveva proibito l’uso. La sua opera è, tuttavia, assai utile per censire le più comuni, algie, all’epoca, già malattie di per sé stesse. A nostro avviso è improprio ed impreciso parlare in questo periodo di civiltà medica romana, ma bensì, di civiltà medica greca, impiantatasi e prosperante in Roma. Tutto ciò cessa con le invasioni barbariche ed il crollo dell’impero: per la medicina si apre un lungo periodo di oscurantismo. Solo con Cassiodoro, intorno al 530 d.C., si avrà un ritorno anche formale alla utilità e dignità del medico, chiamato a corte in qualità di Archiatra Palatino. Un qualche merito rileviamo nella medicina bizantina nella persona e l’opera di Ezio di Amida (502-575) che nei suoi “ Sermoni” suggerisce, quali antidolorifici, la canfora, i chiodi di garofano ed altre piante d’Oriente. Paolo di Egina va ricordato in quanto intuisce che la gotta è affezione da iperalimentazione e conseguente ne deve essere il trattamento.