IL DOLORE E L’UOMO PREISTORICO           Vi è un certo accordo fra gli archeologi e gli storici sulla comparsa dell’Homo erectus nel Paleolitico inferiore, circa due milioni di anni fa, epoca del ritrovamento, in Africa, del primo utensile fabbricato ed utilizzato dall’uomo. Fra i trenta ed i quarantamila anni fa, ignoti artisti decorano in Spagna ed in Francia le pareti ed i soffitti di alcune caverne, ma è solo intorno al 3100 che compaiono in Medio Oriente le prime forme di scrittura: le pittografie. Sussiste, quindi, un lungo periodo che supera, ampiamente, il milione di anni in cui, per noi posteri, l’Homo è muto, anche se ha avuto una qualche possibilità di trasmetterci testimonianze della sua vita e sentimenti, attraverso graffiti, pitture e manufatti. Significativo il fatto che dalle sistematiche, organizzate, attendibili campagne di scavi, o dagli accidentali ritrovamenti, sia derivato lo spostamento, verso l’alto, di ogni datazione, a riconoscimento del fatto che tali nostri remoti antenati si rivelavano assai più civili di quanto noi pensassimo, ritenendoli assai più prossimi agli animali, semiabbrutiti dall’inclemenza degli elementi e dalla continua lotta per la sopravvivenza. Definire, pertanto, “epoche mute” il lungo periodo in cui l’uomo ha organizzato la propria comunicativa, attraverso l’attenta osservazione, l’imitazione dei suoni, l’organizzazione del linguaggio, quale metodo espressivo delle più elementari sensazioni, da quelle della sofferenza, della paura e del piacere, alla più completa comunicabilità, è assolutamente inesatto.

Possiamo considerare la pittura un eloquente mezzo di comunicazione delle emozioni. Essa è ampiamente dedicata alla riproduzione del mondo animale, sulla cui attenta osservazione era prevalentemente focalizzata l’at- tenzione dell’artista, in quanto fonte di pericolo sì, ma anche di quotidiano sostentamento. Non mancano, tuttavia, scene in cui compare anche l’uomo la cui estrema schematizzazione non può lasciar trasparire quei sentimenti che ci si attenderebbe dalla drammaticità delle situazioni, come, ad esempio, nella scena del cacciatore atterrato, forse ferito e, comunque, gravemente traumatizzato dall’enorme bisonte che egli è riuscito a ferire mortalmente. A ben vedere è, forse, proprio nella sproporzione fra la mole dell’animale e l’umiltà, la “pochevolezza” di quel misero cacciatore, l’essenza del messaggio di stupefazione, disperazione e di dolore.

 

Dalla attenta osservazione del comportamento degli animali, spe- cie se da lui feriti, avrà appreso come trattare le sue ferite, leccando, mordicchiando, spremendo, comprimendo, aggiungendo, poi, di sua iniziativa, l’apposizione di ciuffi d’erba, di ragnatele, di erbe, di cenere ancora calda. Da ciò avrà gradatamente appreso come alcune erbe, quali, ad esempio, la valeriana o i fiori del papavero selvatico fossero più idonee di altre e certe ragnatele in grado di arrestare, talora, il defluire di quel liquido rosso che aveva, ben presto, compreso essere prezioso. Una volta acquisite le proprietà del fuoco, la sua conservazione e la possibilità di scaldare pietre che, a lungo, ne mantenevano il calore ed appreso come fossero utili a intiepidire le rigide notti ed a lenire i misteriosi dolori interni o quelli degli arti. Al contrario, quale sollievo poteva recare l’acqua fredda, la neve o una scheggia di quel ghiaccio che, quale stalattite, pendeva all’imboccatura della grotta! In qualche modo egli poteva agire da solo per ferite o altro in parti accessibili del proprio corpo ma, per le altre, occorreva farsi aiutare dai suoi simili che potevano essere anche più esperti di lui per aver già eseguito tali manovre ed ecco, forse, l’apprendimento ed un primitivo concetto di specializzazione, arricchitosi anche, con toccamenti, frizioni, unzioni e massaggi ed applicazione di quelle erbe che verranno, poi, chiamate “salutari”.

 

Si rende, sempre più necessario, vivere in comunità. Al demone, in questo caso Pazuzu, venivano attribuite sembianze terrificanti e poteri malefici (Museo del Louvre, Parigi). Se il male è, ad esempio, un’intollerabile cefalea, o una terebrante nevralgia del Trigemino, o frequenti attacchi epilettici occorre intervenire sulla testa ed ecco la trapanazione cranica. Il rinvenimento di crani trapanati in tutta Europa, ma, anche, in Asia e nell’America meridionale ha costituito, da una parte, un incredibile enigma e, dall’altra, una stupefacente sorpresa nel constatare che non pochi trapanati sono sopravvissuti all’intervento e che esso, in alcuni casi, era stato più volte ripetuto, a probabile dimostrazione del fatto che si era dimostrato… efficace.

È quasi uno shock rilevare che i reperti del bacino del Dnieper sembrano risalire al Mesolitico e, cioè alla sconvolgente datazione di 15000-16000 anni fa! Una particolare densità di ritrovamenti in Francia ha fatto parlare di “delirio chirurgico”, mentre analoghi ritrovamenti nella valle di Ollachea, in Perù, unitamente a primordiali siringhe in bambù, ha fatto pensare all’esistenza di un centro specializzato ed alla possibile somministrazione di clismi analgesici o fortemente ipnotici. Per quanto più strettamente ci interessa il ritrovamento, in una grotta presso Nuoro, dello scheletro della “Donna di Sisaia”, risalente alla cultura di Bonannaro ha aperto nuovi interrogativi. Si tratta di un chiaro esempio di trapanazione cranica con sopravvivenza, eseguita con fine tecnica operatoria, mediante l‘uso di un trapano cilindrico, con estrazione e, successiva, riapposizione del disco osseo, con perfetta saldatura, che non può non stupirci! Altre sorprese ha rivelato lo scheletro, quali fratture dell’arto superiore sinistro, ben ricomposte, ed una neoplasia ossea del sacro che doveva rendere assai dolorosa la deambulazione, la giacitura supina ed anche lo stare seduta. Una donna che, indubbiamente, aveva molto sofferto, per la quale, è stata avanzata la supposizione che soffrisse di male sacro e che fosse, essa stessa, una guaritrice.

 

La mummia di Similaun o “uomo di Similaun” o semplicemente Otzi, è conservato al Museo Archeologico dell’Alto Adige di Bolzano. Nella valle del rinvenimento è invece situato l’Archeoparc-Museum Val Senales, che ricostruisce l’ambiente di vita di Ötzi. Si tratta del corpo di un essere umano di sesso maschile, risalente a un’epoca compresa tra il 3300 e il 3100 a.C. (età del rame), conservatosi grazie alle particolari condizioni climatiche all’interno del ghiacciaio. L’esame degli osteociti ha collocato l’età della morte fra i 40 e i 50 anni. In seguito ad analisi sul DNA mitocondriale del corpo mummificato, è risultato che il ceppo genetico dell’uomo di Similaun risulta non più presente a livello mondiale. Nella sua pelle risultano semplici tatuaggi, ottenuti iniettando sottocute, una soluzione di cenere in corrispondenza delle articolazioni vertebrali lombo-sacrali e delle articolazioni degli arti inferiori a forma di galloni, o strisce sovrapposte, o sotto forma di crocette, forse a localizzare diverse sedi ed intensità di dolore. Poiché, date le rigide temperature alpine, Oetzi era vestito di pelli, assai abilmente cucite, tali tatuaggi non potevano essere esibiti, da cui l’ipotesi di chi scrive che si trattasse dell’esito di una istillazione sottocutanea di cenere, di cui conosciamo un effetto antinfiammatorio. Ci piace pensare che alla cenere, esito del fuoco, materiale sterile, immagine del sole sia stato attribuito un particolare significato salvifico-terapeutico. Rimane da chiedersi se tale trattamento sia assimilabile alle tecniche di agopuntura o, addirittura, ad un loro superamento, causa l’introduzione di materiale ritenuto “sacro”. Si tratta di ben 49 segni, il che induce a pensare a più sessioni di trattamento e da ciò l’illazione che sia stato efficace e, quindi, ripetuto, allorché la sintomatologia dolorosa si ripresentava.