Dalla tesi di Laurea del dott. Mattia Mele:
DIAGNOSI e DIAGNOSI DIFFERENZIALE
1.1. Definizione
La procedura, che consiste nell’interpretazione di segni e sintomi raccolti, quali interpretazioni di un processo patologico in atto o pregresso, viene identificata come diagnosi. Un metodologico approccio diagnostico prevede un’anamnesi, ovvero la raccolta dei dati storico-clinici comprendente informazioni sui precedenti ereditari, sulla salute dei familiari e l’esame obiettivo, con una valutazione laboratoristica e strumentale.
Tuttavia pochi sono i sintomi, ma molte le malattie. I sintomi più o meno sono sempre gli stessi, le malattie le più varie. Angina pectoris e respiro accelerato: infarto del miocardio o ansia somatizzata? O qualcos’altro ancora?
Questo imprevisto è alquanto frequente nell’attività medica. Ci si trova cioè a dover gestire un quadro sintomatologico che può essere dovuto a più cause alternative, a più malattie.
Nello specifico la patologia viene individuata in seguito ad un percorso intellettuale per ESCLUSIONE. La malattia viene quindi individuata per via residuale, una volta che le alternative vengono scartate, sia mediante l’esame diretto sul paziente, sia mediante le indagini strumentali: analisi di laboratorio o immagini diagnostiche. L’individuazione della malattia, altro non descrive, che la diagnosi.
La DIAGNOSI DIFFERENZIALE rappresenta questo percorso per esclusione. Dal momento in cui viene posta una diagnosi differenziale, il retroscena mentale è: la causa del quadro potrebbe essere A, B, C o D… Una diagnosi vera e propria ancora non è stata posta, non si sa ancora da quale patologia è generato il quadro. Più propriamente si parla quindi non di diagnosi, ma di diagnostica differenziale: il sostantivo “diagnostica”, descrive infatti non la tappa di arrivo, ma l’iter, il percorso. L’espressione “diagnosi differenziale” è peraltro quella comunemente usata, sia in medicina che in giurisprudenza.
NON SOLO IN MEDICINA…
l’individuazione di una causa mediante un procedimento per esclusione, non è peculiarità della medicina, ma comune a svariate attività. Anche il pubblico ministero procede per esclusione, quando cerca d’individuare l’omicida fra più soggetti. O il giardiniere, quando vuole capire perché in un arbusto le rose stanno fiorendo e in un altro no. Non solo: anche nella vita quotidiana seguiamo spesso lo stesso percorso per esclusione, quando, ad es., qualcuno non risponde ad un sms interrogandoci su quale possa essere, fra varie opzioni, il perché della mancata risposta.
1.2. Diritto penale e diagnosi differenziale
Le sentenze sotto citate hanno ad oggetto due casi di omessa diagnosi differenziale.
Per comodità espositiva il primo caso sarà definito dell’embolia polmonare e il secondo, dell’emorragia cerebrale. Di seguito, verrà riportato un breve riassunto.
- Il primo è quello di un paziente che si presenta in un pronto soccorso ospedaliero e lamenta episodi di assenza di respiro, capogiri e dolore all’emicostato sinistro; all’anamnesi recente figura un politraumatismo da incidente stradale. Il medico che si occupa del caso, svolge un esame radiografico del torace, a seguito del quale esclude l’origine traumatica del quadro sintomatologico e dimette il paziente con l’annotazione “dolore toracico sn.”. Il paziente decede qualche giorno dopo per embolia polmonare da trombosi venosa profonda degli arti inferiori. Con autopsia, si accerta infatti l’avvenuta poussé tromboembolica: dagli arti inferiori, a seguito dell’incidente stradale, si è liberato materiale trombotico, poi migrato mortalmente nel distretto polmonare attraverso il richiamo venoso. Il medico viene ritenuto responsabile della morte per colpa, per non avere proceduto ad un esame clinico degli arti inferiori e ad ogni altro esame che avrebbe potuto svelare la presenza della malattia circolatoria, cioè per non averla posta in diagnosi differenziale. Viene richiamato il principio secondo il quale: “Versa in colpa il medico che, in presenza di sintomatologia idonea a porre una diagnosi differenziale, rimanga arroccato su diagnosi inesatta, benché posta in forte dubbio dalla sintomatologia, dall’anamnesi dalle altre notizie comunque pervenutegli, omettendo così di porre in essere la dovuta terapia”.
- Nel secondo caso un medico di medicina generale viene chiamato a visitare a domicilio una paziente che presenta un quadro d’improvvisa e ingravescente cefalea nucale, vomito e ipertensione. Diagnostica un “attacco cervicale” e prescrive un farmaco contro l’ipertensione. Qualche giorno dopo la visita il quadro precipita, la paziente viene ricoverata in ospedale, dove viene colpita da un arresto cardiaco, per emorragia cerebrale. Il medico di medicina generale è ritenuto responsabile di omicidio colposo, per non avere proceduto al ricovero della paziente e non avere posto in diagnosi differenziale un’emorragia cerebrale all’esordio. Si richiama anche in questo caso il principio per il quale versa in colpa, il medico che non opera la diagnosi differenziale e si specifica che l’obbligo di porre tale diagnosi “…vale non soltanto per le situazioni in cui la necessità della diagnosi differenziale è già in atto, ma anche quando è prospettabile che vi si debba ricorrere nell’immediato futuro a seguito di una prevedibile modificazione del quadro o della significatività del perdurare del quadro già esistente”. Situazione, quest’ultima, riscontrata nel caso di specie, per il quadro di esordio della malattia, suscettibile quindi sia di defervescenza e poi di risoluzione, sia di maturazione in fase florida.
Le sentenze in esame, non indicano il momento in cui si può interrompere l’indagine su una patologia alternativa. Tuttavia la Corte di Cassazione ha precisato, in altre occasioni, quale sia tale momento per il medico e cioè quello della “…raggiunta certezza che la patologia medesima possa essere esclusa…” e ha indicato anche il criterio: “…in base alle conoscenze dell’arte medica da lui esigibili…”.
I due casi presentano in comune un dato, cioè una diagnosi che tale non è, ma una pseudodiagnosi. Infatti “dolore toracico sin.” e “attacco cervicale” non sono diagnosi, ma la rilevazione di un sintomo. L’indagine diagnostica rimane ancora da fare o, come nel caso dell’embolia polmonare, è stata fatta, ma è incompleta, perché solo si è esclusa l’origine traumatica del dolore, mentre c’era da indagare l’ipotesi circolatoria. Proprio nel caso dell’embolia polmonare, questo modo di refertare è oggetto di stigma da parte della Corte d’Appello e il ragionamento è poi condiviso dalla Cassazione. Si scrive infatti che, con l’annotazione “dolore toracico sn.”, il medico ha restituito al paziente la sintomatologia da questi riferita, semplicemente gli ha fatto l’eco.
In entrambi i casi, si materializza un’omessa diagnosi o quantomeno una diagnosi non resa esplicita, elaborata dal medico solo mentalmente.
Talvolta la diagnosi invece non viene omessa, viene identificata errata perché non viene posta in diagnosi differenziale la malattia scatenante i disturbi accusati dal paziente. Anche casi come questi sono presenti in giurisprudenza. Ad esempio: viene diagnosticata erroneamente una virosi intestinale e non posta in diagnosi differenziale un’appendicite acuta. O anche: viene diagnosticata erroneamente una colica addominale e non posta in diagnosi differenziale una perforazione intestinale.
Tuttavia, sia che la diagnosi venga omessa sia che venga posta ma sia errata, le cose non cambiano: non si è posta comunque in diagnosi differenziale la malattia che costituiva la causa del quadro clinico e quindi la diagnosi corretta è sfuggita. E in questo consiste la colpa del medico.
Vanno peraltro tenute nel debito conto le difficoltà di svolgere la diagnosi differenziale. Difficoltà che si accentuano quando il paziente presenta un quadro paucisintomatico e c’è quindi la necessità di evocare uno o più segni clinici. Oppure quando il quadro è sporcato dall’assunzione di un farmaco precedentemente alla visita, o quando s’interviene in urgenza o addirittura in emergenza. O quando il paziente non riferisce un sintomo invece importante, ad esempio, una recente momentanea perdita di coscienza, perché non può o peggio non vuole riferirlo, cioè non collabora con il diagnosta.
Ma anche quando il quadro è ricco, pulito, c’è tutto il tempo a disposizione e il paziente è collaborante e conosciuto, può comunque risultare difficile discriminare fra diverse ipotesi diagnostiche. Basti pensare alla difficoltà di distinguere una demenza vascolare, da una demenza Alzheimer: non sempre le immagini diagnostiche risultano dirimenti e una diagnosi davvero certa, può essere fatta solo al tavolo autoptico, quando ovviamente ciò non è più utile a fini terapeutici, ma solo medico-legali. Si pensi, oppure, alla difficoltà, talvolta estrema, di distinguere fra attacchi di panico e ansia generalizzata
Spesso la diagnosi è il passaggio obbligato per stabilire qual è la terapia idonea. E in queste ipotesi all’errore diagnostico segue, come logica conseguenza, quello terapeutico e a cascata quello prognostico. Come è avvenuto nel caso dell’embolia polmonare, nel quale l’omessa diagnosi, ha impedito la somministrazione di un antiaggregante e anche nel caso dell’emorragia cerebrale, nel quale l’omesso ricovero ospedaliero ha impedito il necessario trattamento neurochirurgico.
Talvolta invece, insorge la necessità di intervenire attraverso una metodologia intellettuale di diagnostica opposta, utilizzando il criterio EX ADIUVANTIBUS o EX JUVANTIBUS. Corrispondono ad una locuzione latina, traducibile letteralmente con “dai giovamenti”. In medicina si parla di “criterio ex juvantibus” per indicare una diagnosi supportata da un tempo di remissione della patologia in seguito ad un dato trattamento.
Classico esempio è quello delle intolleranze alimentari: eliminare dalla dieta la supposta causa dell’intolleranza permette di fare una diagnosi ex adiuvantibus. Questa potrà poi essere confermata se la reintroduzione dell’alimento coincide con un ritorno della sintomatologia (ex nocentibus).
La giurisprudenza non è ricca di pronunce nelle quali viene richiamato in modo esplicito il principio in esame, per il quale cioè versa in colpa il medico che non pone in diagnosi differenziale la malattia, che genera il quadro clinico. Le sentenze in commento non vengono così a comporre una nutrita serie. Eppure la diagnostica differenziale, costituisce il normale processo seguito dal medico nell’indagine sulla malattia, che genera il quadro clinico e quindi dovrebbero essere in numero più consistente le pronunce che richiamano il principio.
Qual è il perché della relativa povertà di pronunce?
La risposta a questa domanda, comporta che si ponga in chiaro rilievo che la colpa per omessa diagnosi differenziale consiste in definitiva in un mancato approfondimento diagnostico, che preclude di giungere ad una diagnosi corretta. Manca una diagnosi corretta, alla quale invece poteva approdarsi. Ecco quindi perché il principio giurisprudenziale sulla diagnosi differenziale, il più delle volte non viene richiamato, perché rimane assorbito nel più generale principio per il quale versa in colpa il medico che non pone la diagnosi corretta. Di tale generale principio quello sulla diagnosi differenziale altro non è che una precisazione. Anche quando si stabilisce, come nel caso dell’emorragia cerebrale, che l’obbligo di porre tale diagnosi “…vale non soltanto per le situazioni in cui la necessità della diagnosi differenziale è già in atto, ma anche quando è prospettabile che vi si debba ricorrere nell’immediato futuro a seguito di una prevedibile modificazione del quadro…”, altro non si sta facendo che indicare una modalità, cioè l’osservazione dell’evoluzione del quadro clinico, attraverso la quale poter sciogliere i dubbi diagnostici e giungere quindi ad una diagnosi corretta. Ancora una volta quindi il principio di carattere generale.
Il principio sulla colpa per l’omessa diagnosi differenziale non appare però superfluo, anche se compreso nell’altro di carattere più generale sull’omessa diagnosi corretta. Tutt’altro: il principio pone la netta pretesa per la diagnosi differenziale e offre una precisazione che rende chiarezza sia agli operatori giuridici che ai medici. E per questa ragione è auspicabile in giurisprudenza un suo più frequente richiamo.
Con il principio, gli operatori giuridici dispongono di un criterio di giudizio che, proprio per la sua chiarezza, evita i noti discorsi confusionari, basati sul fatto che il medico si è comunque impegnato, in ipotesi anche facendo tanto, nell’approfondimento del caso clinico.
Dal principio emerge invece per i medici l’obbligo di approfondire diagnosticamente e l’obbligo di escludere un’ipotesi di malattia soltanto quando questa sia da escludere in base a letteratura. Un perentorio messaggio giurisprudenziale che funge da monito, ma non mortifica di certo l’esperienza che il medico acquisisce e che gioca un ruolo fondamentale nell’esclusione di ipotesi diagnostiche alternative.
È noto, e non solo in medicina, che l’esperienza che vale, è solo quella che cresce insieme allo studio, per fondersi insieme nella competenza professionale.
Risulta assai complicato, quando nello specifico parliamo di terapia del dolore, identificare una diagnosi esatta, discriminando le molteplici diagnosi differenziali che vi ruotano attorno. È necessario, in questi casi, avere un quadro ben delineato delle associazioni tra tipologia di dolore, sede ed eventuali e presunte diagnosi differenziali.
CAPITOLO 2:
STRUMENTI PER LA VALUTAZIONE DEL DOLORE
2.1 Le scale di valutazione
Oltre ad uno studio di matrice prettamente qualitativa, al fine di discernere ed individuare la tipologia di dolore che ci si presenta, occorre valutare l’entità della sensazione dolorosa, il classico “quanto fa male da 0 a 10, nel quale 0 equivale ad assenza di dolore e 10 al dolore insopportabile?”. Questo è un esempio di scala di valutazione. Le scale di valutazione rappresentano strumenti validi e condivisi dalla comunità scientifica, che hanno come scopo principale il miglioramento dell’intero processo assistenziale, attraverso una sistematica e metodologica raccolta dati.
Nel caso di fenomeni che possono essere sottoposti a delle misurazioni quali-quantitative come il dolore, le caratteristiche definenti sono rappresentate dalle variabili. Il valore della variabile è ogni stato possibile assunto dal carattere di interesse. Nello specifico, la variabile è rappresentata dall’intensità dello stimolo doloroso mentre il valore dipende dalla scala utilizzata.
È possibile ottenere una classificazione delle variabili, in base al fatto che le loro manifestazioni abbiano natura qualitativa o quantitativa.
Nelle manifestazioni di natura qualitativa troviamo:
- Scala nominale: è una scala classificatoria semplice. Utilizzata ad esempio per le variabili possibili nella valutazione dello stato mentale (vigile, apatico, incosciente).
- Scala ordinale: rappresenta una scala verbale di valutazione, nel caso del dolore, della sua intensità (assente, lievissimo, moderato, media entità, forte, atroce).
Nelle quantitative abbiamo:
- Scala ad intervalli: utilizza valori numerici equidistanti per la misurazione delle variabili.
- Scala di rapporti: consiste in un rapporto prestabilito costante tra i numeri di una scala che riflettono il rapporto di grandezza della variabile in esame, spesso in maniera direttamente proporzionale.
Esistono delle caratteristiche che le scale di valutazione devono rispettare per essere ritenute idonee all’utilizzo ed alla condivisione nella comunità scientifica. Devono essere VALIDE, ovvero adeguate al fenomeno da misurare, AFFIDABILI quindi più riproducibili possibili per una misura precisa e SENSIBILI, capaci di riflettere le modificazioni della variabile che si sta prendendo in esame.
È necessario sottolineare che, in particolare quando si tratta di valutare, elaborare ed interpretare il dolore riducendolo ad un parametro, entrano in gioco variabili esterne che minano alla veridicità della misurazione. Il valore ottenuto potrebbe essere falsato da diversi fattori quali la componente emotiva, il grado di sopportazione e la scelta della scala utilizzata in base alle esigenze del paziente.
Per questo motivo distinguiamo ulteriormente le scale in:
- Soggettive o self report, basate sulla descrizione verbale o analogica che il paziente riesce fornire. I limiti sono individuabili nelle capacità cognitive, comunicative e all’età del paziente.
- Oggettive che valutano indici comportamentali e fisiologici in risposta ad uno stimolo doloroso traendone un punteggio secondo l’intensità del dolore.
TIPOLOGIE DI SCALE ALGOMETRICHE
Neonatali
Si definisce neonato, il bimbo nel periodo delle 4 settimane che inizia con il parto e finisce con i il 28 esimo giorno successivo al parto. Considerando il limite evidente dettato dal linguaggio, vi è la necessità di utilizzo di scale di valutazione oggettiva. La PIPP (premature pnfant pain profile), attribuisce un valore da 0 a 3 per ogni indicatore considerato. Vengono presi in esame: l’età gestazionale del neonato, lo stato comportamentale, la frequenza cardiaca, la saturazione di ossigeno, il corrugamento della fronte, lo strizzamento degli occhi e il corrugamento del solco naso-labiale. Un punteggio che varia dai 18 ai 21 punti, riflette un dolore severo, da 12 a 17 moderato, da 6 a 12 minimo e da 0 a 5 assenza di dolore.
- Scala PIPP
2.1.1. Pediatriche
Quando si deve assistere un bambino sotto i 6 anni, esiste comunque la necessità di utilizzare scale che tendono a minimizzare gli errori di misurazione, utilizzando scale oggettive prettamente operatore dipendente. Tra le scale di valutazione del dolore pediatrico abbiamo
- CHEOPS (Children’s Hospital of Eastern Ontario Pain Scale) che tende a valutare il pianto, l’espressione e la risposta verbale, come si presentano dorso e gambe e la tendenza al tatto. Ad ogni indicatore viene attribuito un punteggio variabile da 0 a 3. Un punteggio maggiore di 4 indica la presenza di dolore. Il valore critico è considerato un punteggio di 7.
- Scala CHEOPS
- PRS (Happy Face Pain Rating Scale), consiste in 7 volti disposti su una linea orizzontale. La lettura parte da sinistra, passando dall’espressione che interpreta l’assenza di dolore a quella che indica il peggior dolore, con punteggio che va da 0 a 6. Viene principalmente utilizzata per bambini in età compresa tra 2 e 12 anni.
3. Scala PRS
2.1.2. Adulti
Con questa tipologia di pazienti, si ha la possibilità di poter somministrare delle scale più semplici ed efficaci, senza preoccuparsi della barriera comunicativa tra professionista ed assistito. Appartengono alla classificazione delle scale soggettive o self report, caratterizzate dalla possibilità del paziente di poter descrivere la sensazione dolorosa, attraverso un numero o un aggettivo. Va da sé che ognuno vive, descrive ed elabora in maniera totalmente soggettiva il dolore, quindi in questo caso risulta difficile poter confrontare rilevazioni parametriche di pazienti distinte. Semplicisticamente parlando, rilevando in una scala da 1 a 10 il dolore provocato da una lombalgia con stessa eziologia ed intensità in due pazienti diversi, otterremo due valori diversi. Questo dipende dalla soglia del dolore, parametro totalmente soggettivo. Tra le scale di valutazione maggiormente utilizzate troviamo:
- VAS (Visual Analogue Scale): costituita da un segmento rettilineo generalmente della lunghezza di 10cm, alle cui estremità corrispondono “assenza di dolore” e “dolore più forte”.
4. Scala VAS
- VDS (Verbal Descriptor Scale): è una scala verbale descrittiva di valutazione del dolore. In questo caso, al paziente verrà chiesto di indicare attraverso degli aggettivi prestabiliti, l’intensità del dolore posizionandolo tra: NESSUN DOLORE, MOLTO LIEVE, LIEVE, MODERATO, FORTE, MOLTO FORTE.
5. Scala VDS
- NRS (Numeric Pain Intensity Scale): rappresenta la scala numerica più utilizzata. Valuta l’intensità del dolore da una scala con punteggio da 0 a 10, dove 0 sta per “assenza di dolore” e 10 per “più forte dolore immaginabile”. È una delle scale più sensibili, capace di cogliere le modificazioni della variabile presa in esame, così da confrontare le varie misurazioni rilevate, inoltre ha un numero di intervalli maggiore della VRS, che le consentono di avere un’affidabilità maggiore. Si presta anche per l’utilizzo telefonico, in assistenza domiciliare. Risulta delle volte complesso per alcuni pazienti ridurre la sensazione dolorosa in numero, sia per limiti culturali, linguistici o intellettivi, tuttavia resta la scala algometrica maggiormente utilizzata, con riscontro pratico, immediato e preciso.
In base alla letteratura, il valore minimo per il quale bisogna necessariamente intervenire con un trattamento antalgico è “4”.
In realtà è necessario sottolineare che l’esperienza dolorosa è un fenomeno soggettivo e multifattoriale. Per questo, anche la sua valutazione non può necessariamente avvenire attraverso delle metodologie standardizzate e porre “4” come valore minimo per intervenire va in antitesi con quanto appena espresso.
6. Scala NRS
2.1.3. Le scale algometriche: condizione necessaria ma non sufficiente
La clinica insegna che la valutazione del dolore attraverso una scala algometrica è una condizione necessaria, ma non sufficiente per orientarsi sul trattamento adeguato. È necessario, infatti, raccogliere altre informazioni, che possono essere di matrice temporale, eziologica e soprattutto descrittiva della componente algica.
Stando a quanto sopra espresso, un qualsiasi paziente che lamenta un dolore di 4 punti su una scala NRS, deve essere sicuramente trattato.
Con un dolore costante, ripetuto per settimane, di 6 punti è necessario intervenire?
A cosa si va incontro se il dolore viene “sopportato” o se il paziente è costretto ad “imparare a conviverci”?
CAPITOLO 3: IL DOLORE
L’Associazione Internazionale per lo Studio del Dolore (IASP), identifica il dolore come “un’esperienza sensoriale ed emotiva spiacevole, associata a un effettivo o potenziale danno tissutale o comunque descritta come tale”.
In passato si è sempre considerato il dolore come risultato di un danno o di un’alterazione tissutale. La ricerca ha recentemente dimostrato la possibilità di dolore in assenza di danno. L’ esperienza finale è l’integrazione di ciò che sentono e discriminano i nocicettori ovvero quando inizia e finisce lo stimolo e la sua intensità, affetti ed emozioni, reazioni del sistema nervoso e vascolare, movimento e reazioni dell’apparato muscolo-scheletrico e valutazione e interiorizzazione del dolore (aspetto cognitivo).
In base alla patogenesi, è possibile distinguere dolore nocicettivo e dolore non nocicettivo (neuropatico).
3.1. Dolore nocicettivo
Rappresenta IL dolore, causato da una lesione o da un danno imminente. Serve a proteggere l’organismo da eventuali danni. Può essere avvertito localizzandolo nei pressi della sede della lesione oppure, nel caso di organi interni, l’irradiazione dolorosa coinvolge un’area più ampia e lontana dalla lesione.
Se prevale la componente nervosa, si manifesta con formicolio, scossa, bruciore o fitta, a differenza delle strutture osteo-articolari che mimano un dolore sordo, sensazione di rigidità, fitte nella mobilizzazione e senso di pesantezza.
Il dolore avvertito da lesioni midollari è in ogni caso di tipo nocicettivo.
Nella cute, nelle ossa, nei muscoli e nei tendini le terminazioni nocicettoriali producono il cosiddetto dolore nocicettivo somatico. Queste terminazioni nervose vengono attivati da stimoli meccanici, vibratori o termici a seguito di una lesione o un infortunio (ad esempio tagli, abrasioni, artriti o artrosi).
Le fibre terminali dei nocicettori a livello viscerale sono responsabili di stimolazioni nocicettive che producono dolori e fastidi come costipazione, emorragie interne, ulcere, gastriti, coliti, coliche renali, tumori.
Le fibre terminali dei nocicettori sono presenti anche a livello vascolare. Esse rivelano dolori come quello della tromboflebite. La stimolazione di queste fibre porta al cosiddetto dolore nocicettivo viscerale che si caratterizza con nausea, vomito e nervosismo, meno frequente nel dolore somatico.
Viene definito nocicettivo perché mediato dai NOCICETTORI. Sono particolari neuroni sensitivi primari, specializzati nella percezione degli stimoli dolorosi.
In particolare possiamo affermare che la NOCICEZIONE rappresenta l’insieme dei segnali elettrici e biochimici che vengono elaborati ed interpretati dall’organismo. Questo specifico processo consta di 4 fasi:
- L’evento scatenante provoca un rilascio di sostanze sostanza P e prostaglandine che stimolano i nocicettori;
- Trasmissione: rappresenta il momento in cui gli impulsi elettrici del dolore che provengono da pelle, ossa, articolazioni arrivano al midollo spinale per giungere al cervello (nuclei della base e aree corticali) dove vengono riconosciuti e memorizzati;
- Percezione: il momento in cui si diventa consapevoli del dolore;
- Modulazione: la fase in cui l’organismo agisce per vivere o sopravvivere a questa sensazione. Avviene il rilascio automatico di endorfine dal lobo anteriore dell’ipofisi, di serotonina e di tutta la dimensione emotiva e razionale di una situazione dolorosa (ad esempio l’auto-rassicurazione, la richiesta di aiuto e l’affidarsi ad un professionista competente, il pensiero di fare qualcosa per stare meglio).
Questo processo spiega come una minaccia o un danno, possano essere percepiti in modo molto differente non solo tra persone con storie diverse, ma anche dalla stessa persona in momenti e condizioni diverse della sua vita.
3.2. Dolore non nocicettivo (neuropatico)
Il dolore neuropatico è un dolore acuto o cronico, causato da una lesione o disfunzione del sistema nervoso periferico o centrale. Al contrario del dolore nocicettivo, che origina da un insulto fisico o da un processo infiammatorio, il dolore neuropatico non segue la via fisiologica di trasmissione del dolore, ma origina all’interno del sistema nervoso costituendo, in tal modo, un fenomeno totalmente patologico causa di sindromi dolorose molto difficili da curare.
Il dolore neuropatico interessa circa l’1% della popolazione. Nei pazienti affetti da malattia neoplastica, è presente come forma pura nel 10% circa dei casi, ma in un ulteriore 40% di pazienti si presenta in associazione al dolore nocicettivo.
Nel dolore neuropatico, di frequente c’è una scarsa correlazione fra l’entità dell’insulto nervoso e le manifestazioni algiche. Ciò induce, non di rado, a sottostimare questo tipo di dolore. Pertanto una corretta diagnosi risulta fondamentale per impostare una corretta strategia terapeutica. Alcuni esempi di sindromi dolorose, con le quali il dolore neuropatico si può manifestare, sono: nevralgia del trigemino, cervicobrachialgie, sciatalgie, neuropatie periferiche paraneoplastiche, neuropatie provocate dalla terapia (post-chirurgiche, da radiazioni, da chemioterapici), sindromi non direttamente correlate al tumore (Herpes Zoster e Nevralgia Post Herpetica). Quest’ultime, si manifestano generalmente con una serie di segni e sintomi, che ci permettono di formulare una diagnosi di dolore neuropatico.
Tra questi il più frequente è il Dolore Urente, descritto dal paziente come bruciore intenso e continuo nella parte interessata, spesso sono associate alterazioni della sensibilità cutanea come l’allodinia, cioè il dolore causato da uno stimolo generalmente non doloroso (per es. sfiorare la pelle provoca un forte dolore), e l’iperalgesia, ossia la percezione di dolore molto intenso in risposta a stimoli dolorosi lievi.
3.3. L’importanza della classificazione del dolore
Oltre alle categorie sopra elencate possiamo classificare il dolore in base all’eziopatogenesi dello stimolo doloroso. Individuiamo per questo il dolore TRANSITORIO, dovuto all’attivazione dei nocicettori in assenza di danno tissutale. La peculiarità caratterizzante è rappresentata dal fatto che è un dolore che svanisce secondariamente la risoluzione della causa scatenante. Similare è il dolore ACUTO che ha, a seguito di un danno tissutale, una durata limitata nel tempo. In maniera molto semplicistica si potrebbe passare alla descrizione del dolore CRONICO, che tende a protrarre la sintomatologia dolorosa per un tempo maggiore rispetto alla guarigione della patologia scatenante. In sintesi, la differenza tra il dolore transitorio, acuto e quello cronico risiede nel fatto che, a differenza dei primi due, l’ultimo tende a presentarsi nonostante la risoluzione della causa che lo determina. Tuttavia esiste una linea sottile tra il dolore acuto e quello cronico, rappresentata dal dolore di tipo PERSISTENTE dovuto alla permanenza dello stimolo nocicettivo, come nell’ acuto. Questo tipo di dolore è stato definito anche come “ongoing acute pain”, a sottolineare che conserva le caratteristiche del dolore acuto e va distinto dal dolore cronico. Un esempio è il dolore da coxartrosi, dove la persistenza della lesione anatomica giustifica il ripresentarsi del dolore ad ogni movimento dell’articolazione dell’anca. Anche in questo caso, come nel dolore acuto, si ha di solito una buona risposta agli analgesici ed alle misure antinocicettive come i blocchi anestetici e gli interventi neurolesivi.
Lo scopo principale, dopo aver valutato ed individuato una componente dolorosa acuta o transitoria è quello di evitare, attraverso repentine misure di terapia antalgica, che il dolore si cronicizzi manifestandone la componente neuropatica, di difficile trattamento e non responsiva alla comune farmacologia.
3.3.1. Valutazione del dolore neuropatico: diagnosi differenziale
In linea molto generale, il dolore si distingue in ACUTO, quando compare all’improvviso con durata limitata nel tempo e CRONICO quando si protrae più del previsto. I pazienti affetti da dolore cronico risultano di assai complicata e difficile gestione nelle cure primarie. In principio occorre un’accurata classificazione in base alla fisiopatologia, che raccoglie il dolore cronico in 3 ampie categorie:
- dolore dovuto ad una malattia o danno tissutale (dolore nocicettivo);
- dolore causato da malattia o danno del sistema somatosensoriale (dolore neuropatico come nella nevralgia posterpetica);
- dolore senza un substrato somatico noto.
Queste tre tipologie di dolore hanno la possibilità di presentarsi singolarmente, ma anche in combinazione tra di loro, nello stesso paziente o nella stessa parte del corpo. Per questo motivo, la diagnosi differenziale del dolore cronico, rappresenta uno strumento valido ed efficace per riuscire ad identificare l’eziopatogenesi dello stimolo doloroso.
Risulta di fondamentale importanza riconoscere precocemente le origini neuropatiche del dolore, al fine di classificarlo e spiegarne il meccanismo sintomatologico. Il tutto è incentrato al fine di adottare una terapia farmacologica idonea e specifica al dolore, che sia nocicettivo o neuropatico. Tuttavia tra i due, quello neuropatico appare difficile da individuare, risultando di conseguenza sottostimato e sottotrattato. Come risultato, molti farmaci idonei al trattamento di specifiche patologie vengono sottoprescritti, lasciando spazio ai più comuni analgesici convenzionai come i farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS) incuranti dei rischi potenziali e della limitata efficacia per il trattamento del dolore neuropatico.
Il dolore neuropatico cronico è molto comune nella pratica clinica e pregiudica gravemente la qualità di vita dei pazienti, nonché causa un importante carico economico sulla spesa pubblica. Uno studio di popolazione sulle caratteristiche del dolore neuropatico in 6000 pazienti in cura presso studi di medicina di famiglia nel Regno Unito ha riportato che la prevalenza del dolore con origine prevalentemente neuropatica era del 8% e che pazienti con dolore neuropatico riferivano un dolore più intenso e di maggiore durata, maggiormente invalidante sulla la qualità di vita rispetto agli intervistati con altri tipi di dolore cronico.
Come precedentemente affermato, la diagnosi differenziale di dolore neuropatico risulta cruciale, perché vi è necessità di un trattamento specifico che va al di là delle pratiche analgesiche comuni rispetto al dolore nocicettivo. Nel trattamento occorre includere farmaci di diverse classi come anticonvulsivanti e antidepressivi, preferendoli a trattamenti standard con paracetamolo e FANS, privi di efficacia dimostrata. La maggior parte delle volte non è possibile trattare e curare la patologia che sta alla base e per questo motivo, i medici di medicina primaria vestono un ruolo cruciale nell’aiutare i pazienti con dolore cronico al fine di raggiungere un’ottimale qualità della vita attraverso la minimizzazione delle pene e la massimizzazione della capacità funzionale. In casi più complessi possono essere presi in considerazione approcci multidisciplinari e terapie riabilitative.
3.3.2. Diagnosi e valutazione del dolore neuropatico
Il dolore neuropatico viene spesso descritto come urente, lancinante o trafittivo, con sensazioni inusuali di formicolio, sfioramento e scossa elettrica. L’anamnesi deve essere ben accurata per identificare al meglio la qualità, l’intensità e la frequenza effettiva dei sintomi dolorosi, indagando l’eventuale presenza di malattie sottostanti o precedenti tentativi di trattamento. A seconda della lesione o della malattia causa del dolore neuropatico ci possono essere altri sintomi e segni neurologici come debolezza motoria e sintomi relativi ad una funzione alterata del sistema nervoso autonomo, come l’ipersudorazione.
La valutazione della sensibilità tattile, inizia con il semplice tocco, seguito dal test con punta di spillo. Se i risultati sono normali, devono essere valutate le sensibilità termica e alla vibrazione prima di dichiarare che la funzione sensoriale è intatta. Se non è disponibile un thermoroller può essere utilizzato in sostituzione un oggetto metallico (p.e. il manico di un martelletto per riflessi), raffreddato con acqua di rubinetto. La qualità della risposta può differire dal normale; per esempio il freddo può essere percepito come bruciore (sensazione di calore paradossa), oppure uno stimolo normalmente non doloroso provocare dolore (allodinia). In quest’ ultimo caso la presenza di allodinia meccanica dinamica viene valutata usando uno leggero stimolo in movimento come strofinare un batuffolo di cotone mentre l’allodinia al freddo viene valutata con un oggetto freddo.
Nel caso in cui la valutazione sensoriale non sia conclusiva, o la malattia causale non sia evidente, il paziente deve essere inviato al secondo livello di cure come un ambulatorio neurologico o del dolore per ulteriori accertamenti. I test usati in centri specializzati, possono includere procedure elettrofisiologiche convenzionali, come studi della conduzione nervosa o i potenziali evocati somatosensoriali, come pure meno convenzionali quali strumenti di laboratorio per la valutazione delle vie nocicettive del sistema nervoso periferico e centrale.
3.3.3. Riconoscimento di pazienti che necessitano di terapia antalgica
Durante il percorso diagnostico e assistenziale è utile discriminare tra due diverse possibilità che potrebbero presentarsi.
La prima consiste nella manifestazione di un episodio algico correlato ad una patologia nota che, nella maggior parte dei casi viene già trattata con un’adeguata terapia farmacologica, più o meno efficace.
D’ altra parte la componente algica potrebbe essere etichettabile come episodica, non secondaria ad una specifica patologia nota, con caratteristiche e manifestazioni di nuova genesi, che quindi ha bisogno di una valutazione più approfondita.
Nella pratica clinica è utile tuttavia riuscire a discriminare pazienti in cui il dolore riferito ha reale necessità di essere decodificato. È questo il caso specifico di assistiti con sindrome depressiva e/o sindrome ansiosa che, nella maggior parte dei casi, tendono ad enfatizzare il problema dolore, che in tal caso è manifestazione di un disagio psichico esigente di uno specifico trattamento che esula dalla terapia farmacologica con farmaci analgesici.
Al fine di un’ottimale valutazione è utile identificare il paziente che necessita di terapia antalgica introducendo un criterio di inclusione ed uno di esclusione.
Criterio di inclusione: vengono annoverate tutte quelle manifestazioni algiche in grado di impattare sulla tollerabilità e sulla qualità di vita, che quindi necessitano di un precoce trattamento al dolore riferito, quando non è possibile attendere la risoluzione delle patologie che lo scatenano.
Criterio di esclusione: c’è la necessità di escludere dal trattamento i pazienti per i quali vi è certezza che il dolore riferito sia un sintomo psicosomatico, come nei casi specifici di ansia e depressione sopracitati.
3.3.4. Quale farmaco analgesico scegliere?
Al fine di individuare una corretta terapia analgesica è necessario seguire alcune irrinunciabili tappe di approccio:
definizione della sede
definizione delle caratteristiche del dolore al fine di evidenziarne le componenti nocicettiva e neuropatica
durata nel tempo
possibili irradiazioni
fattori scatenanti
La più complessa da rilevare risulta la valutazione e la definizione delle caratteristiche del dolore, distinguendolo tra nocicettivo e neuropatico.
Il primo quesito da porsi è se il dolore è causato da una malattia nota scatenante una lesione al sistema nervoso. In caso di risposta affermativa esiste una probabilità del 40% che il dolore sia riconducibile a quello neuropatico.
Un secondo elemento utile è rappresentato dalla possibile distribuzione della componente algica lungo il decorso di un territorio nervoso. Anche in questo caso, in caso di risposta affermativa, la probabilità di dolore neuropatico aumenta di un ulteriore 40%. A questo punto, se entrambe le ipotesi precedenti risultano vere, la probabilità passa all’80%.
Il terzo elemento è la ricerca delle caratteristiche del dolore. Se il dolore viene descritto urente, bruciante, come scossa elettrica o punture di spillo, la probabilità di rilevare un dolore di tipo neuropatico aumenta del 20%.
In conclusione, se il dolore descritto dal paziente soddisfa tutte e tre queste caratteristiche, la probabilità che il dolore sia neuropatico diventa quasi del 100%.
Se al termine della raccolta dell’anamnesi non è possibile definire un’area di rappresentazione del dolore o se il dato non è certo perché il paziente riferisce il dolore in più sedi, l’incongruenza dei dati raccolti richiede un ulteriore approfondimento diagnostico.
Il successivo esame obiettivo ha un duplice scopo. Il primo è quello diagnostico, dato che l’ispezione evidenzia la presenza di eventuali lesioni trofiche o modificazioni del trofismo superficiale o profondo (massa muscolare, allodinia, iperalgesia); il secondo scopo è quello terapeutico, in quanto la definizione dell’appropriata area di manifestazione permette l’utilizzo di un’appropriata terapia farmacologica.
3.3.5. Dolore nocicettivo, neuropatico e non solo
Esistono patologie nelle quali, la definizione della tipologia del dolore risulta complicata, e spesso non può essere classificata né come nocicettiva, nè come neuropatica, come la fibromialgia, le Sindromi Complesse Regionali (CRPS) e patologie molto comuni, come la sindrome del colon irritabile o l’emicrania.
Per quanto riguarda nello specifico, la fibromialgia, possiamo affermare che sia originata da una disfunzione di più sistemi, ma le cosiddette disfunzioni non sono causate da un vero e proprio danno del sistema nervoso. Per questo motivo, viene talvolta utilizzato a riguardo il termine disnocicettivo.
CAPITOLO 4: LA FIBROMIALGIA
4.1. Definizione
La classificazione della tipologia di dolore risulta di fondamentale importanza nell’identificazione di una corretta diagnosi, andando ad escludere le diagnosi differenziali affini alla reale patologia. Il tutto è assai più complicato quando si deve trattare un dolore provocato né da un’infiammazione, né da un eventuale danno articolare ma tuttavia catalogato nella famiglia delle patologie reumatiche, di natura extrarticolare. È il caso specifico della fibromialgia. Viene definita come sindrome cronica e sistemica che prevede la presenza di dolore muscoloscheletrico diffuso, che coinvolge tutta la colonna vertebrale. Oggi, è noto che la fibromialgia è maggiormente diffusa tra le donne, che rappresentano circa il 90% dei malati. Può inoltre comparire a qualsiasi età, ma il picco, si colloca tra i 40 e i 60 anni, con importanti ripercussioni sull’attività lavorativa e sul piano socioaffettivo.
4.2. Fibromialgia e diagnosi differenziale
Potendo immaginare l’ipotetico caso di un paziente che accede in ambulatorio, lamentando dolore localizzato principalmente nei comparti articolari maggiori, a seguito di un’attenta anamnesi remota e familiare, è doveroso escludere tutte le possibili diagnosi differenziali di matrice prettamente reumatologica intra articolare, attraverso test ematici per analizzare la composizione del sangue al fine di rilevare la presenza di un eventuale fattore reumatoide o di escludere disfunzioni della tiroide.
Tra le patologie che possono essere poste in diagnosi differenziale con la fibromialgia si possono riscontrare:
- POLIMIALGIA REUMATICA, caratterizzata dalla flogosi dei muscoli a livello del collo, del cingolo scapolare e pelvico, associata a movimenti articolari limitati e dolore, rigidità su polsi, gomiti e ginocchia. Sintomatologia molto simile a quella dell’artrite reumatoide, presenta una sostanziale differenza: mentre nell’artrite reumatoide, patologia infiammatoria cronica autoimmune, bersaglia in maniera elettiva le articolazioni, la polimialgia reumatica colpisce i comparti muscolari.
- SINDROME DELLE GAMBE SENZA RIPOSO che provoca, nei pazienti che ne sono affetti, una sensazione di irrequietezza ad uno o entrambi gli arti inferiori, manifestando impellente bisogno di movimento. Il tutto accompagnato da una sensazione dolorosa, di formicolio, bruciore, scosse e prurito. La sintomatologia viene parzialmente imputata alla vertiginosa e non fisiologica riduzione dei livelli di dopamina nelle ore serali. Il sistema dopaminergico è costituito da neuroni che controllano il movimento, infatti i pazienti migliorano con l’assunzione di farmaci dopaminergici.
Per evitare di cadere in errore, a causa di una superficiale valutazione del dolore, è necessario adottare un adeguato approccio alla metodologia clinico-diagnostica della fibromialgia. L’American Collage of Rheumatology ha individuato nei TENDER POINTS, il punto di partenza per la corretta diagnosi.
Si tratta di 18 punti che, alla digitopressione, scatenano un dolore circoscritto all’area stimolata. Per la diagnosi di fibromialgia, il medico dovrebbe accertare la dolenzia di almeno 11 punti su 18. Tuttavia, la risposta al dolore di un numero inferiore di 11 punti, non determina la netta esclusione della probabile diagnosi.
I 18 tender points sono presenti bilateralmente e sono cosi disposti:
1) alla base del cranio, accanto alla colonna vertebrale;
2) alla base del collo nella parte posteriore;
3) in cima alla spalla verso la parte posteriore;
4) fra la clavicola e la spina dorsale;
5) sulla cassa toracica;
6) sul bordo esterno dell’avambraccio (circa 2 cm al di sotto del gomito);
7) nella parte superiore dell’anca;
8) nella parte alta dei glutei;
9) sul ginocchio.
4.3. La terapia
Una persona con sindrome fibromialgica, ha una complessità di sintomi caratterizzati da un profilo psicologico fragile, con ansia e depressione, sviluppati a cascata e derivanti da continua astenia, stanchezza, rigidità muscolare e disturbi comportamentali.
La terapia non farmacologica si basa su terapie “fisiche” come TENS, ionoforesi, termoterapia e tutte quelle terapie di rilassamento muscolare. La terapia farmacologica invece, consiste in farmaci miorilassanti in grado di interagire su contratture muscolari e su farmaci che inducono ad un potenziamento dell’attività della serotonina, per combattere la depressione.
Ad oggi la cura ideale per la fibromialgia non esiste. Tuttavia il trattamento necessita, a causa della complessità e della varietà dei disturbi da essa provocati, un approccio multidisciplinare che coinvolga più specialità, dal medico di terapia del dolore al reumatologo, fino ad arrivare al fisioterapista e allo psicologo.
CAPITOLO 5: HERPES ZOSTER
Non solo le patologie muscolo scheletriche vengono diagnosticate dall’esclusione di altre possibili diagnosi differenziali. L’herpes zoster appartiene a quelle patologie nelle quali il dolore fa la differenza sul suo stadio di avanzamento, quindi sulla scelta di un’idonea terapia. Il tutto è però reso molto più complesso, dalla localizzazione del dolore da herpes zooster, dalla sede, e da altre patologie del rachide sintomatologicamente simili.
5.1. Definizione
È una patologia cutaneo-nervosa localmente circoscritta, provocata dalla recrudescenza del virus della varicella-zooster, acquisito durante l’infanzia. Il virus rimane latente in uno o più gangli sensitivi delle radici dorsali del midollo spinale e/o dei nervi cranici, senza dare alcun segno o sintomo.
Scientificamente si definisce “ganglioradicolite posteriore acuta”.
5.2. Sintomatologia
Il nome popolare “Fuoco di S. Antonio”, identifica la peculiare sintomatologia della malattia che si caratterizza con un’eruzione eritemato-vescicolosa unilaterale e da una sindrome dolorosa localizzate a livello di un dermatomero.
Dopo il contatto con la varicella, IL VZV si rifugia nei gangli nervosi sensitivi in stato di latenza. Il meccanismo che porta alla riattivazione, nonché alla manifestazione del virus è tuttora sconosciuto. Tuttavia si ipotizza che ciò venga determinato da un decadimento e/o da un’incapacità del sistema immunitario. Fin dall’acquisizione di questi dati, è facile dedurre che l’epidemiologia, raccoglie un ampio bacino di pazienti anziani. Infatti la sua incidenza è strettamente correlata all’età del soggetto, accompagnata da immunodepressione, che aumenta al crescere dell’età. Si stima che colpisca il 15-20% della popolazione. Uomini e donne appaiono colpiti con uguale frequenza.
Va da sé, che in giovane età è assai raro trovare un paziente colpito da Herpes Zooster. Al di sotto dei 10 anni infatti, il rapporto è di 0,74 casi su 1000 persone all’anno. Solitamente in questi casi, quando si presentano giovani o bambini in apparenti buone condizioni di salute, l’HZV potrebbe essere una spia per indicare depressioni del sistema immunitario, patologica in giovane età, che potrebbe celare una sindrome paraneoplastica o una grave malattia immunitaria.
5.3. Clinica
L’herpes zooster si caratterizza rispetto ad altre patologie per la localizzazione dell’eruzione cutanea, che già da sé indirizza ad una corretta diagnosi. Prevalentemente monolaterale, le vescicole presentano una netta interruzione lungo il decorso della linea mediana e sono prevalentemente limitate all’area cutanea, corrispondente ad uno o più nervi sensitivi.
È stato appunto dimostrato che i singoli gangli nervosi non sono interessati in maniera casuale, infatti la manifestazione cutanea avviene nelle regioni in cui il rush cutaneo da varicella era stato più abbondante.
L’interessamento è principalmente, per il 45-55% dei casi, dei dermatomeri compresi tra T3 e L2, nella cosiddetta forma intercostale. Tuttavia, anche se in forma minore, possono venire intaccate anche le zone del volto, la regione lombare, cervicale e, molto raramente, quella sacrale.
5.3.1. Zoster intercostale
Rappresenta la manifestazione clinica più comune e più facilmente riconoscibile. In questo caso, l’eruzione cutanea è preceduta da una fase prodromica, della durata di 2-5 giorni.
Durante questa fase il paziente può avvertire, a livello del dermatomero interessato, molteplici sensazioni:
• un’alterazione della sensibilità tattile (parestesia), talora percepita come un formicolio fastidioso o pizzicore (disestesia);
• un’ accentuazione disturbante della sensibilità (iperestesia);
• un prurito insopportabile;
• un dolore sordo, intenso;
• un dolore trafittivo, come una punta di coltello;
• una sensazione di calore associata a dolore urente;
• un dolore improvviso, a scarica elettrica, talora evocato dal toccamento (allodinia).
Nonostante lo zooster abbia una manifestazione non generalizzata, nel 5% dei casi è possibile che compaiano sintomatologie sistemiche di diversa natura, che possono essere ricondotte a: cefalea, astenia e febbre.
Dopo questa fase, avviene l’eruzione cutanea. È costituita da maculo-papule su base eritematosa che diventano vescicole dal contenuto limpido, identiche a quelle della varicella ma raggruppate a grappolo.
Nel giro di 2-3 giorni, il contenuto delle vescicole diventa torbido e si trasformano in pustole che entro una settimana si seccano e vengono sostituite, dal 10° al 12° giorno, da piccole croste che poi cadono in 2-3 settimane per lasciare delle zone di ipo- e di iper-pigmentazione. Talvolta si osservano anche esiti cicatriziali.
La manifestazione è solitamente monolaterale, limitata a 1-3 dermatomeri adiacenti.
Il contemporaneo coinvolgimento di dermatomeri distanti tra loro non avviene praticamente mai nel soggetto immunocompetente, mentre è possibile nel soggetto immunocompromesso.
Il dolore è d’intensità variabile, minimo soprattutto nei giovani, oppure intenso, folgorante, al punto di impedire il sonno (fuoco di S. Antonio).
Tra le varie manifestazioni dello zooster assume rilevanza la forma patologica dello ZOOSTER SINE HERPETE(zooster senza eruzione), detto anche “di Sicari”. In questo caso specifico abbiamo comunque la riattivazione del VZV, è presente la sintomatologia neurologica ma manca l’eruzione cutanea. Per questo motivo, risulta assai complicato riuscire a diagnosticare uno zooster privo di eruzione cutanea, basandosi esclusivamente sulla rilevazione della componente dolorosa. A tal proposito, è necessario porre in diagnosi differenziali con altre patologie il dolore rilevato, perché quella che poteva sembrare una semplice dermatite da contatto, può celare un HZV da trattare. Inoltre lo zoster sine herpete può essere confuso con patologie più gravi, con un infarto del miocardio, un’embolia polmonare, una colecistite, una appendicite, una colica renale.
7. Disposizione dermatomerica
5.4. Dolore e diagnosi differenziale
Il più delle volte, è associato ad una sintomatologia dolorosa. Per questo motivo, è possibile identificare il grado di evoluzione della patologia dalla caratteristica algica.
Il dolore associato allo zooster può essere diviso in tre tipologie, che caratterizzano tre diversi stadi di evoluzione della malattia:
- DOLORE PRODROMICO: manifestazione clinica aspecifica, che precede anche di parecchi giorni l’eruzione cutanea. In questo caso, è possibile confondersi, a seconda del dermatomero interessato, per sintomo di: infarto del miocardio, angina pectoris, pleurite, ernia discale, tromboflebite, ulcera duodenale e lombosciatalgia.
In questo caso il dolore è quello che precede la fase vescicolare, quindi si manifesta in assenza di segni clinici. Per questo motivo risulta ancora più complesso diagnosticarlo in fase precoce e nello stesso tempo sono molte le possibilità di errore per la somiglianza sintomatologica con le patologie sopracitate.
- DOLORE ACUTO: si manifesta in presenza di eruzione cutanea ed è presente durante tutto il periodo della fase vescicolare. Se appare l’eruzione, l’identificazione della malattia tramite diagnosi differenziale richiede solo un esame visivo, dal momento che pochissime patologie producono eruzioni cutanee che interessano un dermatomero. Tuttavia, anche l’herpes simplex virus (HSV), può occasionalmente produrre una eruzione cutanea confinata in un dermatomero. A tal proposito è utile sottolineare come, anche in fase acuta, sono numerose le patologie che possono entrare in diagnosi differenziale: esantemi virali, punture di insetto, eritema puntiforme, orticaria papulosa, eruzione da farmaci, dermatite erpetiforme, dermatite da contatto, bruciature, reazione da artropodi, infezioni batteriche localizzate, infezioni da HSV a distribuzione metamerica. Tuttavia in questo caso, l’eruzione vescicolare su uno specifico dermatomero, permette di identificare, ad un occhio esperto, un possibile zoster, procedendo con esami pertinenti.
Il test di Tzanck è utile per diagnosticare un’infezione acuta da herpes, tuttavia non distingue tra VZV o HZV. L’esame cito-diagnostico su vescicole e bolle viene eseguito raschiando la base di una vescicola o una bolla fresca con una lama di bisturi e strisciando poi il materiale raccolto su un vetrino. Dopo la colorazione con una soluzione di Giemsa (colorazione che differenzia globuli rossi dai globuli bianchi), si cercano al microscopio ottico le tipiche cellule giganti polinucleate o i cheratinociti atipici con grandi nuclei, nel caso degli herpes virus.
- DOLORE CRONICO: può durare mesi o anni dopo la scomparsa delle lesioni cutanee. Spesso il dolore cronico è dato dal fatto che la malattia non venga da subito diagnosticata, quindi trattata. Nella maggior parte dei casi, i pazienti tendono a sottovalutare, soprattutto nella fase iniziale, la componente dolorosa, senza sottoporsi a specifici controlli. In altri casi, invece, è possibile che l’operatore non sia stato in grado di diagnosticarlo precocemente, ecco perché l’utilità di porre in diagnosi differenziale la fase prodromica e la fase acuta dell’Herpes Zooster con le patologie sopracitate. Quando il dolore si cronicizza, con il passare del tempo, si manifesta la componente neuropatica, provocando dolore anche quando la causa è stata debellata. In questo caso, il riferimento è rivolto alla nevralgia post-erpetica.
5.4.1. Nevralgia posterpetica (PHN)
La ragione principale per cui l’HZV necessita di una repentina diagnosi, quindi di una terapia farmacologica adeguata, è correlata principalmente alla complicanza neuropatica del dolore.
Come affermato nel paragrafo precedente, fattore sintomatologico predominante nell’HZV è la componente algica, che può presentarsi sia in forma acuta sia cronica. Il dolore non trattato tende a cronicizzarsi, manifestando la sua componente neuropatica. Viene intaccata la via del dolore, secondariamente alla lesione nervosa permanente. Per questo motivo, con la PHN, una volta trattata e debellata la patologia, il sintomo dolore persiste.
Si è dimostrato che la durata del dolore cronico è maggiore:
- nei pazienti con dolori prodromici;
- in pazienti di età superiore a 60 anni;
- in pazienti con dolore acutissimo nei primi 3 giorni del rush.
Nel caso specifico di questa complicanza, il dolore rilevato può essere di due tipi:
- continuo, urente e trafittivo;
- acuto, parossistico di tipo lancinante.
L’allodinia accompagna il più delle volte il paziente affetto da PHN: lo stimolo doloroso può infatti manifestarsi secondariamente a stimoli molto lievi, come il contatto dei vestiti con la cute.
La rilevazione del dolore tra i pazienti affetti da PHN ha evidenziato la varietà della tipologia di dolore riscontrato:
• una costante sensazione dolorosa, profonda, terebrante od urente;
• un dolore tagliente o straziante;
• un dolore pulsante;
• un dolore a colpo di pugnale;
• un dolore spontaneo, ricorrente, nevralgico, a tipo di fucilata o di shock elettrico;
• una sensazione superficiale, acuta, con irradiazione, urente, dolorosa e disestesica
o pruriginosa, suscitata anche da stimoli blandi, normalmente non dolorosi, quale la più lieve pressione sulla pelle (allodinia), nonchè il tocco leggero dell’indossare gli indumenti;
• un dolore continuo con intensità fluttuante o parossistico.
5.5. LA TERAPIA
Ad oggi non esiste una terapia specifica per l’herpes zooster, tuttavia farmaci antivirali, hanno la facoltà di ridurre significativamente la durata della sintomatologia e di rendere quest’ ultima meno severa.
Come precedentemente affermato, l’anamnesi e un’accurata valutazione globale del dolore hanno lo scopo velocizzare il processo, rendendo disponibile la corretta diagnosi nel più breve tempo possibile. Questo perché l’efficacia della terapia antivirale è tanto maggiore quanto più tempestivo l’inizio del trattamento, riducendo il rischio di sviluppare la PHN.
5.6. CASO CLINICO
Per comprendere a pieno la necessità di porre una specifica sintomatologia in diagnosi differenziale con diverse patologie, si presenta il caso clinico specifico studiato nella provincia di Shandong (Cina), presso il dipartimento epatobiliare ed ernia addominale dell’ospedale centrale di Weihai. Lo studio riporta in anamesi, un maschio di 58 anni, con eruzione cutanea da 2 settimane ed una settimana di protusione nella parete addominale destra, senza dolore.
L’esame obiettivo ha rivelato un’eruzione cutanea erpetica guarita e un rigonfiamento marcato di 20cm sulla parete destra dell’addome, nei pressi dell’area innervata dal IX all’XI nervo toracico. Normale la forza muscolare e l’attività degli arti.
Ad un esame approssimativo, si poteva facilmente cadere in errore considerando la problematica legata primariamente all’ernia addominale, senza porla in diagnosi differenziale. Infatti inizialmente, un chirurgo del Dipartimento di chirurgia della parete addominale sospettava un’ernia addominale, negativa ad una successiva ecografia. Infine un dermatologo lo ha diagnosticato come paralisi addominale dell’herpes zoster segmentale che è una complicanza motoria dell’herpes zoster, imitando un’ernia addominale.
Trattamento con Aciclovir orale (800mg 5 volte al giorno per 7 giorni), vitamina B12 (500mg 3 volte al giorno per 2 mesi) e vitamina B1 (20mg 3 volte al giorno per 2 mesi). Il rigonfiamento si è risolto completamente.
La paresi addominale dello zooster segmentale deve essere distinta dalla vera ernia della parete addominale. Se non si fosse posta la classica sintomatologia dell’ernia addominale con l’HZV, l’erniectomia sarebbe stata l’unico trattamento da seguire, senza risolverne la causa. Questa rara complicazione dell’herpes zooster, ha una buona prognosi. I medici, in particolare il chirurgo e il dermatologo, dovrebbero essere consapevoli di questa entità, al fine di fornire trattamenti adeguati.
CAPITOLO 6: LOMBALGIA
6.1. INTRODUZIONE
Circa l’80% della popolazione può affermare di aver sofferto almeno una volta nell’arco della vita di lombalgia, il comune mal di schiena. Descrive comunque un disturbo aspecifico: non identifica una specifica patologia né vi è possibilità di ricondurla ad una sola causa. Può essere distinta in due grandi gruppi, a seconda che derivi dalle vertebre (vertebrale) o da altri fattori (extravertebrale). La lombalgia non specifica, è costituita da dolore e/o limitazione funzionale compreso fra il margine inferiore dell’arcata costale e le pieghe glutee inferiori, con eventuale irradiazione posteriore alla coscia, ma non oltre il ginocchio; può limitare lo svolgimento della normale attività quotidiana, e determinare anche assenza dal lavoro. Se la sintomatologia si risolve entro un mese, come accade in più del 90% dei casi, la lombalgia non specifica è definita acuta. Se la sintomatologia persiste fino a tre mesi si tratta invece di lombalgia subacuta, oltre i tre mesi siamo di fronte ad una lombalgia cronica.
La lombosciatalgia è una sintomatologia dolorosa con irradiazione posteriore al di sotto del ginocchio; nella lombocruralgia il dolore è riferito alla faccia anteriore della coscia. In entrambi i casi, il dolore all’arto può essere presente anche in assenza di dolore lombare. Come per la lombalgia non specifica, si definiscono acuti i quadri che si risolvono entro un mese, subacuti se si prolungano fino a tre mesi e cronici se superano i tre mesi.
6.2. I SEMAFORI ROSSI
Nel 95% dei casi non si è in grado da subito di definire la causa a monte della sintomatologia dolorosa. Per questo risulta necessario riuscire ad escludere patologie a prognosi infausta, che simulano un dolore lombalgico, celando una problematica di maggior gravità. Sono i cosiddetti semafori rossi. Nell’1% dei casi, sono riconoscibili cause gravi, quali fratture e tumori. In un ulteriore 2% vengono riconosciute cause viscerali-sistemiche, come l’aneurisma dell’aorta e malattie gastrointestinali.
Tra le CAUSE GRAVI SPINALI (1%) sono comprese:
- fratture
- tumori
- infezioni
- spondiloartriti
- sindrome della cauda
Inseriamo invece tra le CAUSE VISCERALI-SISTEMICHE (2%):
- affezioni degli organi pelvici (prostatite, endometriosi, flogosi pelvica cronica, ecc)
- malattie renali (nefrolitiasi, pielonefriti, ascessi…)
- pancreatiti e coleicistopatie
- aneurisma dell’aorta
- malattie cardiache e polmonari
- gravidanza
Anche se nella maggior parte dei casi il trattamento è destinato ad una lombalgia non specifica, con prognosi favorevole, il percorso assistenziale deve sempre prevedere l’iniziale esclusione, tramite diagnosi differenziale, di cause gravi e/o sistemiche e/o viscerali. I dati clinici che accrescono il sospetto che esista una seria patologia, sono definiti bandiere o semafori rossi.
Tumore: è stato stimato, che possa presentarsi con una lombalgia nello 0,7% dei casi. Nella maggior parte sono rappresentati da metastasi di tumori alla mammella, del polmone o della prostata. Gioca un ruolo fondamentale l’anamnesi remota: storia personale di tumore, età superiore a 50 anni, perdita di peso, nessun miglioramento dopo un mese di trattamento, dolore ingravescente, continuo, a riposo e notturno. Se sono assenti i primi 4 criteri, può essere escluso un tumore con una sensibilità del 100%, anche se con specificità molto bassa. Il riscontro più specifico rispetto agli altri per ipotizzare la probabilità che vi sia un tumore è senz’altro aver sofferto in precedenza di tumore. La maggior parte delle persone con mal di schiena da causa tumorale, ha dolore di notte, anche se i pazienti che lo riferiscono hanno spesso una lombalgia non tumorale. In caso di sospetto, gli esami standard sono la velocità di eritrosedimentazione (VES) e la RM.
Frattura: con l’invecchiamento della popolazione, aumenta la prevalenza di fratture da fragilità, come causa di lombalgia specifica. I criteri di sospetto sono: età avanzata, uso cronico di steroidi, storia di trauma anche a bassa energia, come la semplice caduta da posizione eretta o seduta, sesso femminile, dolore che si accentua col carico e precedenti fratture da compressione. La radiografia rappresenta l’esame di prima scelta, in sospetto di frattura vertebrale.
Aneurisma dell’aorta: una dilatazione permanente di una arteria di oltre il 50% del suo diametro normale (che nell’aorta addominale in età adulta è in media di 2,2 cm. nell’uomo e 1,9‐2 cm. nella donna), con perdita del parallelismo dei suoi bordi e sovvertimento strutturale parietale. Quando il diametro antero‐posteriore dell’aorta supera i 3 cm, si può sospettare un AAA. La presenza di dolore addominale o lombare, di una massa addominale pulsante e di ipotensione, impongono un invio immediato dal chirurgo. Purtroppo questa triade di sintomi, si verifica solo in un terzo dei casi. L’estrinsecazione verso il rachide, provoca dolori para‐vertebrali, talora irradiati agli arti, che possono simulare un’artrosi lombo‐sacrale (sindrome lombosciatalgica).
Per questo motivo è necessaria una corretta valutazione clinica al fine di escludere, da una semplice lombalgia, un aneurisma dell’aorta addominale.
6.3. LOMBALGIA ACUTA NON SPECIFICA
In assenza di semafori rossi, l’anamnesi e l’esame obiettivo consentono di identificare molteplici casi clinici, riconducibili al quadro clinico della lombalgia acuta non specifica. Il più delle volte risulta complesso riuscire ad identificare la patologia che sta a monte della sintomatologia dolorosa, tuttavia l’approccio clinico adeguato è fondamentale per escludere cause gravi e sistemiche o per almeno ipotizzare eventuali cause e condizioni di rischio, al fine di porre adeguati stili di vita utili alla prevenzione delle recidive.
6.3.1. ANAMNESI
La valutazione anamnestica tiene conto di molteplici fattori che spaziano dall’età del paziente, allo studio del dolore fino alla risposta ai trattamenti e ai fattori di rischio.
Nello specifico, lo studio del dolore mira alla valutazione di:
- Sede: lombare, sacrale, dorso/lombare
- Insorgenza: insidiosa, acuta, post traumatica, cronica
- Caratteristiche: urente, trafittivo, gravativo
- Irradiazione: dorsale, fianco, coscia anteriore/posteriore
- Orario: continuo, mattutino, serale, notturno
- Rapporto con la postura: clinostatismo, ortostatismo, posizione seduta.
6.3.2. ESAME OBIETTIVO
Con l’esame fisico si rileva:
- dolore e/o limitazione funzionale alla flesso-estensione del tronco
- dolore alla palpazione dei processi spinosi, delle articolazioni posteriori, dei legamenti, dei muscoli
6.3.3. TRATTAMENTO
L’obiettivo principale del trattamento è prendersi cura del paziente con mal di schiena senza eccesso di medicalizzazione.
L’assistenza non va prestata al rachide lombare, ma al paziente che soffre di MDS, con la sua famiglia, la sua storia, i suoi problemi di lavoro e tutte le sue paure, anche quelle più irrazionali. L’accoglienza, la lettura della sofferenza con tutte le sue sfaccettature, la spiegazione di possibili cause scatenanti e la comunicazione della prognosi molto spesso favorevole, anche se con la possibilità di ricadute, sono le azioni da compiere per il trattamento della persona con MDS.
Terapia farmacologica
Il farmaco di prima linea da considerare è il PARACETAMOLO, somministrato da solo o in associazione ad oppioidi deboli. È efficace e dai ridotti effetti collaterali rispetto ai FANS; si raccomanda di non superare i 3 grammi giornalieri.
I farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS) risultano efficaci per il trattamento della sintomatologia acuta, anche se non privi di possibili seri effetti collaterali soprattutto intestinali.
Tra i farmaci che possono essere utilizzati in sinergia con altri, ma che non costituiscono il gold standard per il trattamento della lombalgia, non specifica si trovano i miorilassanti.
Terapie fisiche
Non esistono esercizi specifici per la lombalgia acuta non specifica; è utile l’applicazione del calore locale.
6.4. RADICOLOPATIA ACUTA
Rappresenta un altro quadro clinico comune di lombalgia in assenza di semafori rossi, differente dalla lombalgia acuta non specifica. La radicolopatia è una condizione patologica che interessa le radici dei nervi spinali e i loro prolungamenti, con conseguente coinvolgimento delle funzioni motorie dell’organismo. Sono provocate da un sovraccarico di pressione su una radice nervosa all’interno o nella zona adiacente della colonna vertebrale.
La causa più frequente di radicolopatia acuta è un’ernia del disco intervertebrale.
6.4.1. ERNIA DEL DISCO
Viene definita come una fuoriuscita di materiale discale dai normali margini dello spazio del disco intervertebrale, che determina la comparsa di dolore, disturbi sensitivi e motori con una distribuzione radicolare.
La genesi della radicolopatia è multifattoriale e può essere spiegata da una combinazione di fattori meccanici ed infiammatori. I fattori meccanici sono dati dalla compressione esercitata dal materiale erniato sulla radice e sul ganglio spinale, con deformazione diretta delle fibre nervose ed effetti indiretti dovuti alla compressione sul microcircolo arterioso e venoso. I fattori infiammatori sono di natura cellulo-mediata, legata verosimilmente alle proprietà antigeniche del nucleo polposo con elevata concentrazione di mediatori infiammatori, in prossimità dell’ernia.
6.4.2. DIAGNOSI
Viene formulata in seguito ad un’attenta raccolta dei dati anamnestici, di un esame clinico, per poi essere confermata da TAC o RM. l’esame clinico è di fondamentale importanza, per distinguere la tipologia di dolore riscontrata.
Dolore lombare isolato (lombalgia pura), localizzato in sede lombosacrale, dal bordo inferiore dell’arcata costale fino alla regione glutea, senza distribuzione reticolare.
Dolore irradiato all’arto inferiore associato o meno a lombalgia. In questo caso il dolore è tipicamente neuropatico, ben localizzato e si distribuisce metamericamente su uno o più dermatomeri, irradiandosi al di sotto del ginocchio, fino al piede. Per lombosciatalgia, si intende un dolore irradiato posteriormente lungo il decorso del nervo sciatico (radici L5 ed S1) e per lombocruralgia un dolore irradiato anteriormente, lungo il decorso del nervo femorale o crurale (radici L4 e prossimali).
8. Tipiche irradiazioni del dolore lombare
Dolore lombare e/o irradiato agli arti inferiori dipendente da una possibile patologia vertebrale maggiore, come tumori vertebrali, fratture, infezioni, fratture traumatiche o patologiche, potenzialmente gravi, per cui occorre tenere un elevato livello di attenzione se, oltre alla radicolopatia, sono presenti uno o più indicatori, i cosiddetti semafori rossi o red flags sopra citati.
6.4.3. DIAGNOSI DIFFERENZIALE
La diagnosi differenziale della radicolopatia da ernia discale, è un argomento estremamente vasto, considerata la varietà di patologie organiche e non organiche, vertebrali ed extravertebrali che possono generare un dolore agli arti inferiori, associato o meno ad un dolore lombare. Come accennato in precedenza, un’anamnesi accurata ed un esame obiettivo ben condotto, possono già indirizzare la diagnosi in un’elevata percentuale di pazienti, partendo dalla tipologia del dolore. Una radicolopatia monolaterale in un soggetto fra i 20 ed i 55 anni, in assenza di semafori rossi, ha una probabilità molto elevata di essere causata da un’ernia discale, per cui tale diagnosi è presuntiva e non sono necessarie conferme diagnostiche strumentali a meno che i disturbi non si protraggano oltre le 4-6 settimane in assenza di danni. Nei casi in cui il dolore non è tipico o non risponde ai trattamenti, si pone invece il problema della diagnosi differenziale con numerose affezioni.
Dopo questa prima valutazione, è importante distinguere fra dolore neuropatico e dolore nocicettivo. Il dolore nocicettivo è privo delle caratteristiche associazioni di alterazioni sensitive e motorie del dolore neuropatico. Nell’ambito del dolore nocicettivo muscoloscheletrico, occorre distinguere fra: dolore di tipo infiammatorio e dolore di tipo “meccanico”. Il dolore di tipo infiammatorio è presente anche a riposo, soprattutto di notte, è associato ad una maggiore rigidità ed è migliorato da un’attività lieve, mentre quello meccanico è accentuato dal carico, attenuato dal riposo e migliora generalmente in posizione distesa. Il dolore infiammatorio rappresenta un semaforo rosso, in quanto può essere una spia di una patologia maggiore (spondilite reumatoide/infettiva o neoplasia); raramente comunque crea problemi di diagnosi differenziale in quanto la RM ed i test bio-umorali di flogosi dirimono facilmente ogni dubbio. Molto più frequentemente, sono le patologie degenerative del rachide a porre problemi di diagnosi differenziale con la radicolopatia, in quanto una spondilosi, con artrosi faccettale e discopatia degenerativa, genera spesso un dolore somatico irradiato agli arti inferiori, senza topografia radicolare, descritto talvolta come “falsa sciatica” o “sciatica tronca”.
Fra i dolori nocicettivi extravertebrali, si segnala la coxartrosi, il cui dolore nella regione anteriore alla coscia fino al ginocchio, ha una distribuzione simile alla cruralgia, anche se l’assenza di disturbi nervosi e la limitazione funzionale dell’anca, inducono alla prescrizione di una radiografia dell’anca che è facilmente dirimente.
Anche in caso di franchi disturbi di tipo sensitivo e motorio, esistono una grande quantità di patologie neurologiche, che possono mimare una radicolopatia, per sofferenze a vario livello (midollare, di plesso o periferico). Risonanza magnetica e test neurofisiologici, aiutano nell’inquadrare correttamente i disturbi del paziente.
CAPITOLO 7:
DIAGNOSI DIFFERENZIALE AMBULATORIALE (COXARTROSI, SACRO-ILEITE, ERNIA)
Una volta esclusi semafori rossi, tra le possibili patologie alla base di un comune mal di schiena, occorre porre in diagnosi differenziale patologie “minori” che potrebbero concorrere alla sintomatologia dolorosa. La maggior parte degli accessi ambulatoriali sono rappresentati da pazienti che lamentano un dolore di base, localizzato lungo la fascia lombare. Tuttavia nessuna sintomatologia dolorosa descritta, è sovrapponibile tra i diversi assistiti, in quanto specificamente complesse e tra loro diverse. Nella maggior parte dei casi variano:
- Intensità
- Irradiazione
- Deficit funzionali
Nella maggior parte dei casi si possono gestire diverse patologie, con caratteristiche dolorose molto simili tra loro, ma che non rispondono alle stesse radici nervose. Distinguiamo:
- Ernia discale
- Coxartrosi o artrosi dell’anca: avviene quando all’interno di questa articolazione si registra un’usura della cartilagine, che riveste la cavità acetabolare e la testa del femore. Questo assottigliamento espone il tessuto osseo sottostante e causa osteofiti. Nei casi più gravi, inoltre, si possono verificare anche delle accentuate deformità.
L’evoluzione della coxartrosi porta ad un aumento della disabilità, con l’irrigidimento doloroso e progressivo dell’articolazione e l’atrofia della coscia. L’artrosi all’anca, infine, causa un accorciamento dell’arto inferiore, che assumerà progressivamente un atteggiamento vizioso.
- Sacroileite: è l’infiammazione di una o entrambe le articolazioni sacro iliache. Tra le cause principali si riscontranotraumatismi, artriti, stato di gravidanza e vari tipi di infezioni. L’articolazione sacro iliaca è quell’elemento articolare pari, con sede alla base della colonna vertebrale, che connette l’osso sacro all’osso iliaco di destra e all’osso iliaco di sinistra. La sua principale funzione è supportare il peso della parte superiore del corpo umano.
9. Articolazione sacroiliaca
Ernia discale, coxartrosi e sacroileite, rappresentano tre patologie con una simile sintomatologia. Caratterizzate e accomunate di base dalla comune lombalgia, ad un primo esame clinico, potrebbero risultare complesse da diagnosticare senza uno specifico esame strumentale. È altresì ragionevole affermare, che potrebbe non essere necessario prescrivere una radiografia a qualsiasi paziente si presentasse in ambulatorio con una lombalgia.
È per questo che viene introdotto il metodo ex juvantibus o ex adiuvantibus.
È una locuzione latina che si traduce letteralmente con “dai giovamenti”. In medicina si parla di “criterio ex juvantibus”, per indicare una diagnosi supportata da un tempo di remissione della patologia, in seguito ad un dato trattamento.
Nel caso specifico della terapia del dolore, potrebbe presentarsi un paziente che riferisce lombalgia irradiata alla coscia, fin sopra al ginocchio. Non è possibile escludere, con questa semplice descrizione del sintomo dolore, nessuna delle 3 patologie sopra elencate. Onde evitare un esame strumentale, è possibile effettuare dei blocchi nevosi con anestetico locale. Generalmente si procede dalla zona di intervento meno invasiva a quella più invasiva, partendo dall’articolazione sacroiliaca. Se il risultato è positivo e il paziente non percepisce più dolore, vuol dire che la diagnosi di sacro-ileite è corretta e che si può procedere con il trattamento adeguato.
In caso di esito negativo, seguirà con lo stesso procedimento l’anca, fino ad arrivare per esclusione, alla diagnosi esatta. Va da sé che, una volta esclusa sia sacro-ileite che coxatrosi, per avere validità diagnostica di ernia discale, è necessario uno specifico esame strumentale.
7.1. CASI CLINICI
Si presentano casi clinici anonimi di assistiti visitati nell’ambulatorio di Medicina del Dolore dello Stabilimento ’Ospedaliero “Madonna del Soccorso” di San Benedetto del Tronto, dal dott. MaurizioMassetti, medico anestesista e rianimatore specializzato in terapia del dolore.
I case report rispecchiano l’approccio clinico legato alla metodologia ex jouvantibus, dove viene valutata la corretta formulazione diagnostica a seguito di un beneficio secondario ad una terapia medica, ponendo in diagnosi differenziale diverse patologie con sintomatologia dolorosa sovrapponibile.
08/02/2019
Il signor M. N., dopo frequenti accessi in pronto soccorso, accede in ambulatorio con episodio di forte lombalgia non irradiata, associata ad un’iperalgesia dell’articolazione sacro-iliaca. Riferisce parestesie delle caviglie, che fa ipotizzare ad una disestesia a calza. Stenosi del canale midollare.
Buone condizioni generali. Dolore scatenato dal sollevamento di un carico elevato nel 2002, che ha provocato una protusione in L5-S1.
DIAGNOSI DIFFERENZIALE
- LA PROTUSIONE IN L5-S1 INDIRIZZA LA POSSIBILE DIAGNOSI VERSO UN’INFIAMMAZIONE DEL NERVO SCIATICO SECONDARIO A ERNIA DISCALE.
- LA LOMBALGIA NON IRRADIATA INVECE, ORIENTA VERSO UN’INFIAMMAZIONE DELL’ARTICOLAZIONE SACRO-ILIACA.
TERAPIA
Effettuata infiltrazione sacro-iliaca ed iniettati 1mL di KENACORT+4mL di ROPIVACAINA.
RISULTATOà Immediato sollievo dal dolore e risposta positiva all’infiltrazione.
CONCLUSIONEà La lombalgia non irradiata e la disestesia a calza, non erano dovute ad un’ernia discale che provocava l’infiammazione del nervo sciatico, bensì all’infiammazione dell’articolazione sacro iliaca, infiammata dall’evento traumatico risalente al 2002.
14/02/2019
La signora G.A. accede in ambulatorio a causa di un dolore artrosico lombare non irradiato. Assente eventuale componente traumatica correlata. Buone condizioni generali.
DIAGNOSI DIFFERENZIALE
- EVENTUALE CONTRATTURA MUSCOLARE RISOLVIBILE CON MIORILASSANTI E ANTINFIAMMATORI
- IPOTESI DI INFIAMMAZIONE SACRO-ILIACA, CHE SPIEGHEREBBE IL DOLORE LOMBARE NON IRRADIATO.
- LA PRESENZA DI ERNIA DISCALE LOCALIZZATA IN L5-S1 ORIENTA UNA POSSIBILE DIAGNOSI, VERSO L’INFIAMMAZIONE DEL NERVO SCIATICO.
TERAPIA (1)
Effettuati Punti Trigger lombari con 0.5 mL di DECADRON, 1mL di MOBIC, 1 mL di MUSCOLIR e 7.5 mL di ROPIVACAINA. à risposta negativa alla terapia. A questo punto è possibile affermare con certezza, che la sensazione di iperalgesia non è imputabile ad una componente di tipo contratturale, escludendo così una semplice lombalgia meccanica.
TERAPIA (2)
Passiamo alla confutazione o alla verifica della seconda D.D., ovvero l’infiammazione dell’articolazione sacro-iliaca con iniezione intrarticolare di 0,5 mL di KENACORT e 4.5 mL di ROPIVACAINA. à risultato negativo che smentisce anche l’infiammazione all’articolazione sacro-iliaca.
TERAPIA (3)
Valutata la volontà dell’assistito di procedere al tamponamento del dolore con terapia farmacologica, vengono somministrati cerotti di BUBRENORFINA. à ESITO POSITIVO DELLA TERAPIA FARMACOLOGICA a base di oppioidi, che confermano la natura neuropatica del dolore.
A distanza di 3 settimane, la paziente riferisce intolleranza alla terapia farmacologica, che viene sospesaà obiettivo NON raggiunto.
TERAPIA (4)
L’esito positivo della T.F. a base di oppioidi, suggeriscono che la componente del dolore è di tipo neuropatico. Si procede con infiltrazione epidurale con 12 mg di DECADRON + 8 mL di ROPIVACAINA.
à IMMEDIATO EFFETTO POSITIVO. Quasi totale scomparsa del dolore
RISULTATOà Immediato sollievo dal dolore e risposta positiva all’infiltrazione
CONCLUSIONEà Il dolore artrosico lombare poteva essere scatenato da una contrattura muscolare, una sacro-ileite o da un’ernia discale. Il metodo ex juvantibus ha permesso di escludere, servendosi di manovre poco invasive e poco esose per il SSN, le prime due e confermare la componente neuropatica del dolore per procedere con un’epidurale, che ha portato un riscontro positivo nell’immediato.
02/2019
La signora F.B. accede in ambulatorio per frequenti episodi di emicrania senza aura (3/4 al mese), con fotofobia che la costringevano a stare a letto per 3 giorni consecutivi. NRS=8.
Riferisce il più delle volte associazione della sintomatologia concomitante con il ciclo mestruale.
Risonanza magnetica negativa.
Tentativo di alleviare il dolore con FANS senza risultato. L’esame obiettivo evidenzia marcate contratture cervicali.
Buone condizioni generali.
DIAGNOSI DIFFERENZIALE
- LA RISPOSTA NEGATIVA AL TRATTAMENTO CON FANS POTREBBE INDURRE AD ALLONTANARSI DALLA DIAGNOSI DI UN DOLORE NEUROPATICO, ORIENTANDO LA GENESI DEL DOLORE AD UNA COMPONENTE DI CARATTERE PRETTAMENTE ORMONALE, DATE LE FREQUENTI ASSOCIAZIONI EMICRANIA-CICLO MESTRUALE.
- TUTTAVIA SI RITIENE NECESSARIO PROCEDERE NELL’ESCLUDERE IL CARATTERE NEUROPATICO DEL DOLORE.
Terapia (1)
Si procede con Punti Trigger cervicali (0.5 mL di DECADRON, 1mL di MOBIC, 1 mL di MUSCOLIR e 7.5 mL di ROPIVACAINA) + blocco del GON (grande nervo occipitale) con ropivacaina.
RISULTATOà NRS dopo la procedura=4.
CONCLUSIONEà nonostante l’associazione ciclo mestruale-emicrania, la risposta positiva al blocco del GON con Ropivacaina, indica presenza dominante della componente infiammatoria.
Si consiglia ulteriore accesso in ambulatorio, dopo un mese circa dal trattamento per infiltrazione GON con Ropivacaina + cortisone.
03/2019
La signora accede in ambulatorio per procedere con infiltrazione GON con 0.3 mL Decadron + Ropivacaina.
VALUTAZIONE A DISTANZAà Dai 3/4 episodi di emicrania al mese, è stata ottenuta una totale assenza della sintomatologia dolorosa per 4 mesi consecutivi. Riscontrato un episodio di lieve entità del mese di luglio 2019. (NRS=6)
Consigliata rivalutazione a Settembre 2019.
CONCLUSIONI
Alla luce di quanto analizzato, è necessario sottolineare l’importanza di un’appropriata, e accurata valutazione della sintomatologia dolorosa, conditio sine qua non, al fine di arrivare ad una corretta formulazione diagnostica.
Si avverte la necessità di un infermiere ben formato, autonomo e responsabile nella rilevazione degli aspetti qualitativi del dolore, che non si limita al semplice utilizzo della scala NRS. Non si fa esclusivo riferimento a professionisti operanti in ambulatorio di terapia del dolore, ma anche ad infermieri triagisti che, ad esempio, potrebbero riconoscere ed escludere i sopracitati “semafori rossi”, con una prima valutazione e con la secondaria assegnazione del corretto codice di priorità.
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