La tendenza a sottovalutare la componente affettiva del dolore fu in seguito alimentata dalla scuola Oxoniana che sosteneva che gli aspetti sensoriali dell’esperienza dolorosa prevalevano sulle componenti affettivo-cognitive. In questo contesto storico Breuer e Freud dimostrarono però, in alcuni dei loro pazienti, la natura psicogena di alcune condizioni dolorose. La spinta impressa dalla medicina scientifica dell’inizio del XX secolo generò la tendenza a separare il dolore in “organico” (generato da lesione tissutale) e “funzionale” (generato dalla psiche), avvallando la divisione mente-corpo così profondamente radicata nella medicina occidentale. Per contro, acuti osservatori di pazienti come Livingston e Walters, continuavano a sottolineare l’interdipendenza di fattori organici e psicologici nella generazione e nel mantenimento del dolore.
V) l’eziologia.
Il dolore psicogeno rientra nelle sindromi relativamente generalizzate e viene definito come dolore di origine psicologica. All’interno di questa categoria sono descritte 3 sottoclassi:
Il disturbo algico tiene inoltre conto dell’arco temporale in cui si manifesta il dolore, definendosi acuto se di durata inferiore ai 6 mesi o cronico se dura 6 mesi o più. Più spesso nella pratica clinica si incontrano pazienti con questa condizione di tipo cronico. Per semplicità, d’ora in poi, si userà il termine dolore psicogeno o dolore somatoforme per definire il dolore del paziente affetto da disturbo algico, quello che caratterizza le condizioni descritte all’interno della categoria dei disturbi somatoformi secondo il DSM-IV-TR.
Cause e patogenesi
Esiste un substrato di centri e connessioni neurali (pain network o neuromatrix) che può evocare la spiacevole esperienza che definiamo dolore, anche in assenza di uno stimolo doloroso, e la sua attività, in risposta a differenti stimoli, è stata documentata con tecniche neurofisiologiche e di neuroimaging. E’ esperienza comune che una suggestione diretta in modo più o meno consapevole ad evocare dolore, possa generare il sintomo; questo fenomeno prende il nome di nocebo. Per esempio, nell’atto di prescrivere una terapia, una “parola sbagliata”, un’incomprensione, un’attitudine di scarso ascolto o una descrizione troppo meticolosa degli eventi avversi di un nuovo farmaco, possono evocare una risposta nocebo nel paziente. Il commento del paziente seccato a un successivo controllo sarà “La sua terapia ha gravemente peggiorato il mio dolore. È possibile?” Si, è possibile, ma la terapia ha solo dato lo spunto per l’innesco e il mantenimento di un fenomeno psico-fisiologico che ha attinenza con le aspettative, le credenze e le paure radicate nelle esperienze, spesso spiacevoli, che appartengono al bagaglio psicologico di questi pazienti. A sostegno di quest’ipotesi l’esperienza, nella ricerca clinica, insegna che cefalee, dolori addominali e altri sintomi possono comparire in relazione all’assunzione di placebo. Nel folklore popolare incontriamo misteriosi fenomeni come il “malocchio”, le “fatture” o in altre culture alcune pratiche Voodoo che sottendono meccanismi di questo tipo.
In un gruppo di studenti di college sottoposti a un
protocollo sperimentale che prevedeva un passaggio di corrente elettrica (lo stimolo elettrico era prospettato ma non somministrato) attraverso il cranio, 2/3 dei soggetti ha lamentato una modesta cefalea.
In una ricerca effettuata su primati si documenta che facendo svolgere all’animale un compito che richieda un’attenzione focalizzata su stimoli dolorosi, si può registrare un’attivazione delle “on cells” del tronco encefalico, che facilitano la trasmissione del dolore, prima della presentazione dello stimolo doloroso. Bisogna però rilevare che il paradigma sperimentale del
dolore acuto, riprodotto in laboratorio, è distante dalla condizione di dolore cronico espressa dai pazienti; è quindi difficile estrapolare da queste similitudini conclusioni certe.
Dolore e personalità
In tutti i pazienti con dolore cronico si osservano reazioni psicologiche comuni quali:
depressione,
ansia, rabbia e frustrazione. Nel passato questa omogeneità di risposta ha portato a supporre che questi pazienti avessero tratti simili di personalità. La ricerca clinica ha chiarito che i pazienti con dolore cronico possono manifestare disturbi di personalità e che tratti di personalità patologici possono predisporre il soggetto a sviluppare dolore cronico. A questo proposito, alla fine degli anni Cinquanta, Engel introduceva il modello della personalità prona al dolore per tentare di caratterizzare il paziente con dolore psicogeno. Secondo questa visione il dolore nell’adulto diventerebbe un meccanismo di difesa evocato da conflitti infantili irrisolti. Spesso in questi pazienti si possono riconoscere storie di abuso o punizioni infantili che faranno associare il piacere al dolore portando l’adulto a relazioni masochistiche dove il dolore diventa una forma di difesa psicologica. In questa direzione, anche il senso di colpa, conscio o inconscio, potrebbe diventare un elemento costante nella scelta del dolore come sintomo, rispetto ad altri sintomi fisici. A questo proposito è stato suggerito che la relazione tra somatizzazione e abuso nell’infanzia coinvolga un pattern paradosso di sensazioni e realtà nascoste mentre si ricerca un riconoscimento della sofferenza.
In questi pazienti la dicotomia tra l’attitudine pervasiva alla segretezza sui loro vissuti di abuso e la concomitante ricerca spasmodica di riconoscimento della loro condizione di sofferenza può spiegare molti dei comportamenti disfunzionali che manifestano pazienti con dolore cronico.
Questi comportamenti includono una spasmodica ricerca di validazione attraverso l’accumulo di grande quantità di letteratura, seconde opinioni, test diagnostici, prescrizioni, trattamenti non convenzionali, procedure invasive, varie forme di “guadagno secondario”. Anche se questo modello riscuote tuttora un certo interesse, altre ricerche tendono a smentire l’esistenza di una relazione chiara tra un’infanzia problematica e il dolore psicogeno e sembra che il manifestarsi di una patologia psichiatrica più spesso segua la condizione di dolore cronico piuttosto che anticiparla. A sostegno di questa ipotesi si può portare l’esperienza, iniziata circa 20 anni fa, dell’impiego del Minnesota Multiphasic Personality Inventory (MMPI) nei pazienti con sindromi dolorose. Il tipico profilo ottenuto all’MMPI faceva supporre che i pazienti con dolore avessero un comune assetto di personalità. Tale dato non è stato confermato da lavori successivi che hanno documentato che era la condizione di dolore e disabilità a promuovere la modificazione dell’assetto di personalità e quindi il “profilo tipico” dell’MMPI non era specifico. L’idea che possa esistere un profilo di personalità specifico nei pazienti con dolore cronico o dolore psicogeno è stata quindi abbandonata. Questo tuttavia non deve limitare la ricerca di sottogruppi di pazienti con dolore cronico in cui fattori genetici, patologici e psicosociali possono facilitare il mantenimento nel tempo del dolore anche attraverso simili assetti personologici.
Dolore e depressione
La depressione è la più comune patologia psichiatrica riscontrata nei pazienti con dolore cronico e le complesse relazioni tra queste due condizioni sono state affrontate in molti lavori. E’ possibile osservare sintomi depressivi nel 30-55 per cento dei pazienti con dolore cronico e un terzo di questi è affetto da depressione maggiore.
L’efficacia dei farmaci
antidepressivi nelle sindromi dolorose croniche e il frequente riscontro di dolore in pazienti depressi portò agli inizi degli anni Ottanta a formulare l’ipotesi che il dolore cronico fosse una forma di depressione mascherata. Successive ricerche smentirono questa possibilità dimostrando che l’intensità del dolore non è correlata ai sintomi depressivi e che la depressione non è un fattore di rischio specifico per sviluppare dolore.
E’ interessante inoltre rilevare che in uno studio l’amitriptilina risultava efficace nel trattamento della depressione ma non del dolore in pazienti con dolore somatoforme.
Diversi lavori hanno indagato la relazione temporale tra dolore e depressione, al fine di stabilire se il dolore fosse antecedente o conseguente alla depressione. Nel rilevante lavoro di analisi della letteratura di Fishbain del 1997, sono state sottolineate tre possibilità:
1. l’ipotesi antecedente, cioè che sia la depressione a indurre il dolore cronico, incrementando la sensibilità al dolore e abbassandone la soglia di
tolleranza;
2. l’ipotesi conseguente, cioè che la depressione sia una reazione psicologica al dolore cronico;
3. l’ipotesi che il dolore cronico e la depressione possano manifestarsi contemporaneamente, in quanto sottesi da comuni meccanismi patogenetici cognitivi e/o biologici.
Anche se la maggior parte delle evidenze sostiene che la depressione sia conseguente alla sindrome dolorosa, da uno studio prospettico emerge la possibilità di una relazione bidirezionale. E’ molto importante nella valutazione di un paziente con dolore cronico e depressione quantificare clinicamente la quota di ansia, rabbia e frustrazione.
E’ stato dimostrato che un grado severo di ansia può compromettere le possibili strategie di autocontrollo nei confronti del dolore. Pertanto, prima di iniziare trattamenti farmacologici o psicologici rivolti al dolore, bisogna ridurre la quota d’ansia. La rabbia sembra essere in relazione con l’entità della stima soggettiva di quanto il dolore interferisce nella vita del paziente. Sembra pertanto che non solo la depressione ma anche l’ansia, la rabbia e la frustrazione contribuiscano in modo significativo al corteo di emozioni spiacevoli che si associano alle condizioni di dolore cronico. La valutazione e il trattamento delle singole componenti possono pertanto favorire il miglioramento globale dell’attitudine emozionale dei pazienti con dolore cronico.
Dolore e comportamento
La misura del dolore, per le intrinseche caratteristiche esperienziali del sintomo, non può produrre risultati oggettivi. La
comunicazione del dolore utilizza canali verbali e non verbali (lamenti, mimica facciale, posture antalgiche, zoppie, difficoltà lavorative, richieste indirette di aiuto) che ogni operatore sanitario dovrebbe saper riconoscere e integrare nella storia del paziente. Il dolore cronico si traduce molto spesso in un carico emotivo difficile da sostenere e varia nella sua manifestazione esteriore in funzione di fattori etnici, culturali, sociali e religiosi. I
pain behaviors, comportamenti di dolore, sono osservabili e quantificabili; possono diventare quindi uno strumento utile di valutazione del paziente con dolore cronico. Gli stessi comportamenti di dolore possono evocare risposte nei membri della famiglia, negli operatori sanitari o nei colleghi di lavoro che possono rinforzare e mantenere il comportamento stesso: zoppicare, per esempio, può evocare
compassione e attenzioni che possono rinforzare questa condotta che può essere mantenuta anche in assenza di dolore. Questo comportamento, rivolto consciamente o inconsciamente ad acquisire e/o sostenere un vantaggio che il soggetto percepisce come utile in quel momento, non deve sorprendere. Si può a questo proposito ricordare la cagnetta Stasi di Konrad Lorenz che, acquisita l’esperienza che zoppicare voleva dire risparmiarsi, correva o zoppicava a seconda che l’illustre padrone la conducesse verso luoghi alei piacevoli o spiacevoli.
Fordyce nel 1976 propose un modello comportamentale d’apprendimento e condizionamento operante per spiegare il dolore cronico. Questo modello si fondava sul fatto che la persistenza di dolore e disabilità era rinforzata da vantaggi secondari, come supporti finanziari e maggiori attenzioni da parte dei familiari e della società. Queste idee furono e sono alla base dei programmi comportamentali di recupero di pazienti con dolore cronico. L’obiettivo di questi trattamenti è di eliminare i rinforzi al comportamento di dolore attraverso il rinforzo dei comportamenti volti al benessere (condurre una vita normale, ridurre l’assunzione di analgesici e ricominciare a pensare allo svago e al lavoro). La critica che fu mossa a questa teoria e al trattamento conseguente era che, nonostante il paziente riducesse il comportamento di dolore attraverso un condizionamento operante in direzione diversa, continuava a lamentare lo stesso dolore. Inoltre, la riduzione del comportamento di dolore non significava che il dolore era generato o mantenuto da meccanismi di tipo comportamentale. Resta tuttavia innegabile che la storia e l’osservazione del comportamento di dolore sono spesso indispensabili per poter porre la diagnosi di dolore psicogeno e per avvicinarsi all’individuazione dei meccanismi psicologici sottostanti.
Pilowsky, alla fine degli anni Sessanta,
per cercare di fare ordine e rendere meglio comprensibili i pazienti che oggi si classificano nella categoria dei disturbi somatoformi, propose il concetto di “comportamento anormale di
malattia”. Suddivise così le aree di esplorazione del funzionamento del paziente in sei domini che comprendono:
1) la natura del sintomo
2) la componente somatica
3) l’ideazione e l’affettività
4) l’attitudine nei confronti degli altri
5) la motivazione del paziente nell’ottenere il ruolo di malato
6) i fattori culturali.
Questa ricerca portò all’individuazione di pazienti che non accettano l’aiuto del personale sanitario che non sia in accordo con la visione personale del proprio stato di malattia; venne quindi proposto il “comportamento anormale di malattia” come uno stile maladattativo, presente in alcuni pazienti con dolore cronico. Questo stile patologico, potrebbe favorire il mantenimento del dolore nel tempo e interferire con i trattamenti proposti.
Dolore e somatizzazione
I sintomi e i segni somatici clinicamente inspiegabili, associati o meno a dolore psicogeno, sono di frequente riscontro nella pratica clinica e, anche se non è raggiunta la soglia per la diagnosi di una patologia psichiatrica secondo DSM, possono essere invalidanti e richiedere frequenti attenzioni mediche con conseguente dispendio di risorse socio-assitenziali. Con l’impiego di test psicologici standardizzati, è stata dimostrata una relazione lineare tra il numero di sintomi fisici non spiegabili e la presenza di disturbi d’ansia o di depressione, la dimensione psicologica dell’evitamento del pericolo (harm avoidance) e la tendenza alla preoccupazione/pessimismo e l’impulsività.
Nei casi più severi utilizzando i criteri del DSM-IV sarà possibile diagnosticare un disturbo di conversione, un disturbo di somatizzazione, o l’ipocondria. Il meccanismo che sta alla base dell’isteria o, secondo la corrente nomenclatura, del disturbo da conversione, si fonda sull’ipotesi psicanalitica che un disagio psico-emotivo o un conflitto interiore possono manifestarsi con un disturbo somatico in assenza di alterazioni clinicamente rilevanti degli organi o dei sistemi coinvolti. Il corpo sarebbe così utilizzato per raccontare in maniera simbolica qualcosa che non riesce ad essere espresso a livello cosciente, in quanto inaccettabile (rimosso). Inoltre, sempre a livello inconscio, il sintomo somatico ristabilirebbe un equilibrio psichico generale che la condizione psicopatologica sottostante aveva messo in discussione.
I sintomi e segni somatici sono molto vari: cecità, paralisi, anestesie, iperalgesie, dolore, diplopia, vertigini, afonia, pseudoconvulsioni e perdite di coscienza. La negatività degli accertamenti strumentali deve essere accompagnata al riscontro di una relazione tra un evento precipitante, connesso a un conflitto psicologico o alla situazione emotiva del paziente e il disturbo somatico. In alternativa si deve evidenziare una forma di guadagno secondario, per cui la presenza del sintomo fisico evita al paziente situazioni non desiderate o sancisce condizioni di supporto o di vantaggio. Attualmente, per i cambiamenti sociali e culturali avvenuti nell’ultimo secolo, è più difficile incontrare la grande fenomenologia isterica; per questo motivo, piuttosto che descrivere sintomi e segni spesso instabili e variabili, si preferisce parlare di espressione di uno stile e di modalità di relazione interpersonale.
Molto spesso, pazienti con sintomi somatoformi lamentano dolore; da uno studio danese di 127 pazienti con sintomi somatoformi, si deduce che nel 47 per cento dei casi la diagnosi di invio non comprendeva il sintomo dolore ma dopo l’intervista strutturata, tutti i pazienti eccetto uno lamentavano almeno una sede di dolore. Considerando l’associazione tra sintomi di conversione e dolore cronico benigno, era stato proposto un modello in cui il dolore cronico benigno poteva essere il substrato ideale per innescare sintomi di conversione in pazienti predisposti psicologicamente. Nel passato si credeva che esistessero importanti fattori familiari o genetici alla base dei disturbi di somatizzazione ma la pratica clinica e la ricerca sono concordi nel suggerire che la somatizzazione, come processo, possa manifestarsi frequentemente nella popolazione generale, con livelli variabili di gravità, e che solo raramente raggiunga la soglia della diagnosi psichiatrica. Anche se i fenomeni di somatizzazione sembrano stringere un rapporto causale con un trauma avvenuto nell’infanzia o più avanti nel corso della vita, in un recente lavoro prospettico è stata smentita l’ipotesi che la vittimizzazione infantile fosse predisponente per il manifestarsi in età adulta di sindromi dolorose psicogene. Uno studio effettuato su una popolazione di 11986 gemelli documenta come nella sindrome da colon irritabile siano tanto importanti fattori genetici quanto, se non di più, fattori legati al condizionamento sociale. E’ ormai chiaro che in famiglie predisposte alla somatizzazione per fattori etnici, sociali, culturali e religiosi, l’istruzione” della prole alla somatizzazione possa favorire il manifestarsi del fenomeno clinico e il suo mantenimento, secondo modalità che si modificheranno nel tempo in relazione alla condizione socioculturale. E’ forse quindi più corretto pensare al fenomeno della somatizzazione come a un continuum di gradi diversi di espressione, presente nella popolazione generale, piuttosto che ad un insieme di severi disturbi che colpiscono solo una piccola parte di pazienti. A questo proposito si può immaginare che la variabilità della somatizzazione nei pazienti con dolore, anche di chiara natura organica, possa dipendere da fattori come il preesistente stato psicopatologico, l’entità del disagio psicologico, l’assetto di personalità e lo stile di coping del singolo paziente.
Dolore e fattori cognitivi
E’ ormai acquisita anche l’importanza di fattori cognitivi nella genesi e mantenimento di fenomeni di somatizzazione compreso il dolore. Secondo il modello di Leventhal per esempio, l’espressione di una condizione patologica è dipendente dalle modalità con cui vengono percepiti e interpretati i sintomi. I pazienti che considerano severa e incurabile la loro patologia, che credono di non avere nessuna possibilità di controllo sui sintomi, e che si aspettano gravi conseguenze nella loro vita, manifesteranno delle strategie dicopingpiù passive e meno efficaci e il grado di disabilità sia fisico che sociale sarà maggiore. Altri errori cognitivi come il pensiero negativo e non realistico nei confronti dell’esperienza dolore, il catastrofismo, la generalizzazione e la focalizzazione eccessiva dell’attenzione sul sintomo, possono entrare in gioco aumentando la percezione del dolore e lo stress emozionale facilitando così il mantenimento del dolore nel tempo con i correlati di ridotta funzionalità fisica e psicologica. L’eccessiva focalizzazione sul sintomo corporeo e la sproporzionata preoccupazione di avere una grave malattia, nonostante tutti gli accertamenti risultino negativi, possono essere considerati gli errori cognitivi alla base dell’ipocondria. Meglio definita come uno stile espressivo piuttosto che una malattia in sé, la si può incontrare in molte condizioni psichiatriche e può associarsi alle sindromi di dolore cronico. Nell’ipocondriaco, dal punto di vista psicodinamico, si pensa che l’ostilità e l’aggressività verso gli altri, considerata socialmente inaccettabile, sia rimossa e spostata sulle personali lamentele fisiche. Il dolore e le sofferenze somatiche possono diventare quindi una meritata punizione per riparare ed espiare precedenti errori reali o immaginari.
Modello biopsicosociale
Il modello biopsicosociale del dolore cronico tenta di integrare l’aspetto biologico con quelli psicologico e sociale per spiegare genesi e mantenimento nel tempo delle sindromi dolorose croniche, anche in assenza di un chiaro input sensoriale nocicettivo. La sregolazione del sistema di modulazione endogena del dolore sia a livello segmentario che discendente potrebbe essere parte in causa di sindromi dolorose croniche generalizzate attraverso meccanismi neurotrasmettitoriali e/o endocrino-immunologici. Il dolore cronico stringe relazioni causali con meccanismi di sensibilizzazione, apprendimento e memoria che possono essere dimostrati neurofisiologicamente su modelli animali. Nel dolore neuropatico, a seguito di una lesione del sistema nervoso periferico, possono innescarsi modificazioni a cascata, a partire dall’afferente primario fino alla corteccia cerebrale, che si riassumono nel concetto di “centralizzazione” del dolore. L’ipereccitabilità e la disinibizione neuronale conseguenti, a diversi livelli del sistema nervoso, porterebbero a fenomeni di amplificazione e mantenimento del dolore nel tempo. Questi fenomeni, documentati però solo nell’animale da esperimento, potrebbero essere alla base delle bizzarre espansioni dei disturbi sensitivi e del dolore osservati in alcuni pazienti con sindromi dolorose croniche. Anche il fenomeno cellulare del potenziamento a lungo termine dell’efficienza sinaptica (long term potentiation), studiato a livello dell’ippocampo nei processi della memoria, può essere implicato nei fenomeni di sensibilizzazione centrale, sia a livello spinale che cerebrale. Per analogia con esperimenti animali è stato ipotizzato che le terapie cognitivo-comportamentali possano agire sui fenomeni di potenziamento o depressione a lungo termine dell’efficienza sinaptica a livello cerebrale. Di conseguenza, l’effetto antalgico di queste terapie potrebbe essere spiegato mediante l’attivazione delle vie inibitorie discendenti in presenza di un’alterazione della funzione sinaptica.
Si può immaginare inoltre, che questi fenomeni di modulazione dell’efficienza sinaptica possano rappresentare un modello per spiegare la grande influenza di fattori emotivi e cognitivi nella generazione e mantenimento del dolore, anche in assenza di un chiaro input nelle vie sensoriali nocicettive.
Criteri diagnostici
Il disturbo algico del DSM-IV-TR, rientra nei disturbi somatoformi e si avvicina alle caratteristiche del disturbo somatoforme algico persistente dell’ICD-10. I disturbi somatoformi sono contraddistinti dalla presenza di sintomi fisici che, pur facendo ipotizzare l’esistenza di una patologia medica generale, non si associano a una condizione organica. L’importante differenza tra il disturbo algico e il disturbo somatoforme algico persistente dell’ICD-10 è che questo ultimo richiede nei suoi criteri che il dolore non risulti “adeguatamente spiegato dall’evidenza di un processo fisiologico o di una patologia somatica”. Questo criterio, è talvolta di difficile applicabilità, e la sua assenza nel disturbo algico rende la valutazione del clinico meno difficoltosa e più accessibile anche allo psichiatra. Nella tabella 1 vediamo i criteri diagnostici del disturbo algico secondo il DSM-IV-TR.
Come riconoscere nel paziente con dolore una componente psicogena
Elementi di frequente riscontro, spesso in combinazione, in pazienti affetti da dolore con componente psicogena [da Weintraub64modificato e ampliato con l’esperienza personale].
Anamnesi
1. Storia di malattia in un familiare o conoscente con sintomi simili a quelli del paziente.
2. Storia di abuso nell’infanzia o nell’età adulta.
3. Storia di “multiple allergie” e intolleranze ai farmaci.
4. Storia di precedenti sintomi somatoformi o condizioni mediche di dubbia natura.
5. Storia di inutili tentativi terapeutici, invasivi con danni iatrogeni.
6. Storia di contenziosi medico-legali con assenza nella storia di patologia psichiatrica.
Caratteristiche cliniche
1. Dolore che inizia all’improvviso e cresce nel tempo.
2. Dolore di elevata intensità, qualitativamente variabile, che non si modifica con posture, movimento, variabilità circadiana.
3. Assenza di risposta o risposta solo transitoria agli analgesici.
4. Scelta della sede e della tipologia del sintomo con sfondo simbolico.
5. Presenza di grave disabilità, sproporzionata all’obiettività clinica.
6. Negatività degli accertamenti diagnostici o chiara sproporzione/incongruenza tra l’evidenza di patologia e il quadro clinico.
7. Presenza di disturbi sensitivi e motori associati a distribuzione “non anatomica”.
Comportamenti e convinzioni
1. Convinzione di avere una patologia organica e rifiuto d’eventuali interpretazioni psicologiche o psichiatriche.
2. Presenza di attitudine difensiva, rabbia e grande critica per i precedenti curanti.
3. Omissione di documenti e informazioni mediche che sostengono la psicogenicità.
4. Descrizione dei sintomi e della disabilità con intensa partecipazione emotiva.
5. Pain behaviour esagerato in presenza di persone “sensibili” (operatori sanitari, coniuge e famigliari, colleghi e datore di lavoro).
6. Incongruenza tra la stima elevata del dolore e ilpain behaviourmolto povero o assente.
7. Comportamento manipolatorio nei confronti dell’ambiente per assicurarsi vantaggi primari e secondari.
8. Fenomeno del doctors shopping (ricerca spasmodica di un nuovo specialista che possa finalmente capire il dolore per risolverlo, con gran dispendio di tempo/denaro e rischio di danno iatrogeno), con raccolta di ingente documentazione medica.
9. Disoccupazione e scarsa motivazione al ritorno al lavoro.
Comorbidità
1. Associazione a difficoltà e disturbo nella socializzazione.
2. Associazione a disturbi della sfera sessuale.
3. Associazione a tendenza all’abuso e alla dipendenza di analgesici.
4. Associazione a differenti condizioni psichiatriche.
Risulta impossibile creare una “ricetta” infallibile per diagnosticare il dolore psicogeno; si deve quindi rilevare che l’abitudine al confronto con i sintomi, i segni e il comportamento dei pazienti affetti da patologie definite “organiche”, affina l’esperienza che porta a distinguere il dolore psicogeno o, più frequentemente, una componente psicogena nel contesto di una sindrome dolorosa con aspetti di organicità. Intendendo per componente psicogena quella quota di amplificazione del sintomo, quel pain behaviour eccessivo, quella preoccupazione immotivata che non raggiungono la soglia per porre una diagnosi del DSM-IV ma che spesso si incontrano nella pratica clinica.
Terapia
I soggetti con dolore psicogeno di breve durata spesso non arrivano alla valutazione dello specialista perché i meccanismi di compenso psicologico sono ancora ben rappresentati e cure aspecifiche o parole di rassicurazione possono risolvere la condizione. Spesso, per questo motivo, raccogliendo l’anamnesi di pazienti con dolore psicogeno cronico, si trovano episodi di dolore di breve durata e di non chiara natura, magari associato ad altri sintomi aspecifici, risoltisi nel tempo senza specifico trattamento. Il paziente con dolore cronico resta una sfida terapeutica per lo specialista e in generale per la medicina moderna.
Negli ultimi anni la ricerca in campo algologico ha dimostrato l’efficacia di nuove strategie multidimensionali per trattare i pazienti con dolore cronico; queste comprendono il trattamento farmacologico e quello psicologico-riabilitativo. Una presa in carico integrata del paziente con dolore cronico si realizza con una modulazione neurotrasmettitoriale, cognitivo-comportamentale, emozionale e ambientale dell’esperienza dolore. Da un lato gli “interventi psicologici”
(di supporto, cognitivo-comportamentali, di rilassamento corporeo, ipnosi) dimostrano un’importante efficacia sulla nocicezione; dall’altro, le terapie fisiche (terapie radianti, magnetoterapia, elettroanalgesia, agopuntura, biofeedback) e farmacologiche (analgesici, neuromodulatori, psicofarmaci) sono in grado di ottenere effetti vantaggiosi anche sugli aspetti psico-sociali del dolore. Il potenziamento quindi che deriva dall’impiego contemporaneo di entrambe le linee di trattamento diventa fondamentale nell’approccio multidimensionale al dolore cronico. La gestione ottimale del paziente con dolore somatoforme non si discosta da questi paradigmi. Il singolo specialista (psichiatra, anestesista, neurologo, reumatologo, ortopedico, gastroenterologo, oncologo, psicologo) di fronte al paziente con dolore psicogeno resta spesso con dubbi irrisolti (“La mia valutazione sarà sufficiente? Sarò lo specialista giusto? Avrò fatto tutti gli accertamenti del caso? Non mi sarà sfuggita una diagnosi inusuale? Quale sarebbe stata la parola giusta da dire?”) e senza le specifiche competenze per gestire un approccio terapeutico multidimensionale.
Il primo passo per stabilire un contatto efficace con un paziente con dolore è quello di legittimare la sua condizione di sofferenza. Il dolore è reale, ed è percepito come tale! Che la causa sia una frattura esposta di tibia, una sensibilizzazione dei neuroni midollari conseguente a danno nervoso periferico, un’attivazione delleon cellsdei nuclei del sistema di controllo discendente del tronco encefalico o un’alterazione dell’inibizione della corteccia prefrontale sul giro cingolato anteriore promossa da un meccanismo simbolico o dall’ipnosi, il risultato è lo stesso: dolore. ll paziente deve sentirsi compreso se vogliamo che accetti, e magari nel tempo faccia propria, una nuova visione della sua sofferenza. Una visione che lo aiuti a credere, per esempio, che Lui può fare qualcosa per il suo dolore e che le terapie farmacologiche e riabilitative lo aiuteranno a uscire dalla situazione di sofferenza.
Il paziente deve essere aiutato a comprendere che il dolore psicogeno non è follia, che fattori psicologici sono presenti in tutte le condizioni di dolore cronico, indipendentemente dalle cause; che è una patologia spesso cronica ma curabile, che la terapia necessita della sua piena collaborazione e che deve sentirsi coinvolto in prima persona nel processo di cura e di riabilitazione. E’ importante far rilevare che il dolore, soprattutto se presente da molto tempo, non potrà scomparire improvvisamente, bensì ridursi; che anche piccoli passi, nella direzione dell’autonomia e del controllo dei sintomi, saranno importanti se ben valorizzati. Talvolta questi pazienti hanno la convinzione che un nuovo intervento chirurgico o una nuova “tecnica di infiltrazione” risolverà il loro dolore. Questi sono i pazienti che spesso già portano i segni di un danno iatrogeno e con questi anche la sfiducia e la rabbia nei confronti della classe medica. A maggior ragione questi pazienti vanno “agganciati”, sostenuti e tutelati per prevenire nuovi danni.
Da un lavoro di revisione della letteratura, emerge l’efficacia dei trattamenti cognitivo-comportamentali nelle somatizzazioni, indipendentemente da un effetto sulla condizione di stress psicologico che molto spesso risulta elevato in questi pazienti. Per esempio, nei dolori muscolo-scheletrici le tecniche di rilassamento associate al rinforzo di una progressiva ripresa dell’attività fisica, volta a rimpiazzare comportamenti di dolore con attività finalizzate al benessere, possono migliorare il dolore e il funzionamento generale del paziente. Attraverso l’analisi del comportamento di dolore, la percezione/interpretazione che il paziente manifesta della propria malattia e il potenziale di salute (risorse), è possibile valutare la motivazione alla cura e alla guarigione del paziente con dolore cronico. La motivazione è un parametro fondamentale della condizione di partenza del paziente, che può essere in relazione anche alle aspettative e alle credenze del paziente e del suo ambiente familiare. Il processo di cura deve diventare un percorso attivo con degli obiettivi precisi, da negoziare in accordo col paziente e con la famiglia, nella sfera delle prestazioni fisiche, delle relazioni interpersonali e nella dimensione sociale. Se esiste una scarsa motivazione, per la presenza di vantaggi, evidenti od occulti, conseguenti alla condizione di malattia, o relazioni patologiche in ambito familiare (pain games) che sostengono il ruolo di malato, si dovrà lavorare per risolvere questo “tessuto patologico”, prima di poter ottenere una reale collaborazione del paziente. Se la scarsa motivazione è da attribuire a una condizione depressiva, il disturbo dell’umore deve essere diagnosticato e curato.