SENECA
Gli intellettuali hanno affrontato la questione, partendo dal mondo antico ed in particolare da Seneca. Seneca risponde a questa domanda, postagli ipoteticamente da Lucillio, nel “De Providentia” dicendo che ai buoni e ai giusti non capitano mali, ma solo disagi. Il dolore è un disagio, non un male. Il buono riesce a trasformare il disagio in una cosa sopportabile, che non lo turba, che lo accresce nella virtù: allora solo superando prove e ostacoli sempre maggiori, si diventa più forti interiormente. E’ un eroismo derivante da una visione atletica dell’uomo, un’idea stoica-morale ed epicureista del saggio, che va alla ricerca della libertà contro le passioni e i desideri irrazionali che da ogni parte lo aggrediscono e lo minacciano. La sola infelicità è il non avere possibilità di mettere alla prova le proprie forze, la propria resistenza.
Per raggiungere la sapientia, allora, ci si deve impegnare a tempo pieno nella lotta, contro gli impulsi, privandolo della pace dell’anima (che ritroverà solo con la morte). Non rimane che ricercare la virtù, attraverso la teoria epicurea del “vivi nascosto”.
AGOSTINO
La sofferenza dell’uomo risiede nella sua stessa natura, limitata e instabile sin dall’inizio. Questo a causa della primitiva e superba rinuncia all’Eden: il peccato originale. Allora l’uomo è infirmus, senza possibilità di guarigione: questa lacerazione lo mantiene in uno stato di continua inquietudine, che è nostalgia di pienezza e di gioia,traccia del paradiso perduto, che c’induce a tendere ad esso e a Dio: “Inquieto è il nostro cuore finchè non riposi in te” (dice Agostino). Il santo riprende il neoplatonismo, soprattutto dopo aver letto Plotino, e lo cristianizza. Perciò il male non esiste come sostanza, ma è solo privazione del bene, delle cose create da Dio, che è la verità e, finché l’uomo non lo trova, non sarà mai felice. La ricerca s’interroga su tutto, non si abbandona a credere, e affronta continuamente le difficoltà. Essa ci purifica dall’incalzare delle passioni verso una rinascita. La fede è la condizione di questa ricerca, ma è al termine di essa, come dono della Grazia divina. Solo dentro di noi stessi, nella memoria, troveremo Lui, come certezza fondamentale che supera i dubbi. :ciò che è sforzo di liberazione, volontà tesa a cercare e ad amare Dio, è null’altro che l’azione della Sua Grazia in noi. La superbia della volontà che si allontana consapevolmente da Dio e si attacca a ciò che è inferiore è il peccato. Non vi è male maggiore di esso: è l’abolizione della speranza e della ricerca, che ci fa attaccare al materialismo come se fosse Dio, rinunciando a Dio. Quanto Il male fisico, è semplicemente una conseguenza del peccato, del male morale; il corpo, con i suoi desideri, è d’ostacolo alla vita dell’anima. Il cammino di ognuno di noi dovrà tendere al recupero e alla valorizzazione di quel poco di bene prodotto lungo la strada, come dirà poi Calvino.
Letteratura dell’Ottocento
Da sempre l’uomo si domanda “cos’è il dolore?”. Cosa possiamo rispondergli? Probabilmente è uno status dell’animo, una sensazione che avvertiamo al nostro interno, incomprensibile, inspiegabile, indicibile, inafferrabile e, per questo, ultraterrena, divina.
Da dove nasce il dolore, qual è la sua causa? L’’uomo immagina di vivere e agire in una realtà felice, perfetta, fatta su misura per lui, ma inevitabilmente si scontra con una società che, al contrario, frena brutalmente i suoi sogni e spesso li manda in frantumi come un cristallo preziosissimo e fragilissimo che cade improvvisamente a terra.
L’uomo, essere irrequieto proprio perché intelligente, non accetta, ma si agita freneticamente, non si dà pace e vaga tormentato alla ricerca di qualcosa che non ha. Ma la sua disgrazia purtroppo è che anche quando ha tutto, completamente, non è felice perché questo tutto, che è ormai routine e non provoca più emozione, si risolve in nulla, nel vuoto, nelle tenebre.
Qualunque sofferenza è comunque inferiore per gravità alla morte se, come recita Achille nell’Ade, quando incontra Odisseo “«Non abbellirmi, illustre Odisseo, la morte! Vorrei da bracciante servire un altro uomo, uomo senza podere che non ha molta roba piuttosto che dominare tra tutti i morti defunti” (Odissea vv.488/491).
Il termine italiano “desiderio”, deriva dal latino “desiderium”, il quale a sua volta è composto da “de” e da “sidus” “lontano dalla costellazione”: nei tempi più antichi infatti i naviganti si orientavano in alto mare osservando le costellazioni all’interno della profonda volta celeste e quando queste non erano visibili, allora subentrava in loro un senso di smarrimento, di paura, sentivano un enorme vuoto interiore, la necessità di avere accanto qualcosa o qualcuno che colmasse il loro disagio: da qui il dolore e la sofferenza.
Dai “Nostoi”, i versi che cantano il ritorno in patria degli eroi greci superstiti dalla guerra di Troia, In italiano abbiamo “nostalgia”, ovvero “dolore per il mancato o ritardato ritorno in patria”.
Eschilo, tragediografo greco del V a.C., con il suo famoso motto “pathei mathos”, interpretò il dolore umano come incentivo alla conoscenza, alla crescita interiore, alla maturazione personale: secondo il grande drammaturgo greco il dolore è un dono che gli dei fanno all’uomo perché egli possa cambiare positivamente e fare esperienza, servendosi dei suoi errori e delle sue sofferenze per diventare migliore e per migliorare gli altri: il suo dolore, quindi, diventa motivo di giovamento per la società.
Ma anche gli animali e persino le piante provano dolore e non sono destinati ad un’esistenza felice. Se leggiamo alcuni versi dello “Zibaldone” di G.Leopardi (1798/1837), appartenenti circa al 1826,ci rendiamo conto che dietro l’apparente bellezza si nasconde una triste ed impensabile realtà di sofferenza per tutti gli esseri viventi, animali e piante, nessuno escluso.

“Non gli uomini solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano solamente, ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma tutti gli altri esseri al loro modo. Non gl’individui, ma le specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi. Entrate in un giardino di piante, d’erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagion dell’anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento… Là quella rosa è offesa dal sole, che le ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da un’ape, nelle sue parti più sensibili, più vitali. Il dolce mele non si fabbrica dalle industriose, pazienti, buone, virtuose api senza indicibili tormenti di quelle fibre delicatissime, senza strage spietata di teneri fiorellini.
Quell’albero è infestato da un formicaio, quell’altro da bruchi, da mosche, da lumache, da zanzare; questo è ferito nella scorza e cruciato dall’aria o dal sole che penetra nella piaga; quello è offeso nel tronco o nelle radici; quell’altro ha più foglie secche; quest’altro è róso, morsicato nei fiori; quello trafitto, punzecchiato nei frutti. Quella pianta ha troppo caldo, questa troppo fresco; troppa luce, troppa ombra; troppo umido troppo secco. L’una patisce incomodo e trova ostacolo e ingombro nel crescere, nello stendersi; l’altra non trova dove appoggiarsi, o si affatica e stenta per arrivarvi. In tutto il giardino tu non trovi una pianticella sola in istato di sanità perfetta. Qua un ramicello è rotto o dal vento o dal suo proprio peso; là un zeffiretto va stracciando un fiore, vola con un brano, un filamento, una foglia, una parte viva di questa o quella pianta, staccata e strappata via. Intanto tu strazi le erbe co’ tuoi passi; le stritoli, le ammacchi, ne spremi il sangue, le rompi, le uccidi.
Quella donzelletta sensibile egentile va dolcemente sterpando e infrangendo steli. Il giardiniere va saggiamente troncando, tagliando membra sensibili, colle unghie, col ferro. Certamente queste piante vivono; alcune perché le loro infermità non sono mortali, altre perché ancora con malattie mortali, le piante, e gli animali altresì, possono durare a vivere qualche poco di tempo. Lo spettacolo di tanta copia di vita all’entrare in questo giardino ci rallegra l’anima, e di qui è che questo ci pare essere un soggiorno di gioia. Ma in verità questa vita è trista e infelice, ogni giardino è quasi un vasto ospitale (luogo ben più deplorabile che un cemeterio), e se questi esseri sentono o, vogliamo dire, sentissero, certo è che il non essere sarebbe per loro assai meglio che l’essere”.
Perché il Leopardi riuscì ad afferrare così profondamente il tormento dell’uomo e della Natura? Solo perché era un genio?
Solo perché aveva più tempo di altri per riflettere? No, anche perché la sua malattia e la sua sofferenza lo avevano condotto ad essere più profondo, ad avvertire le contraddizioni della società contemporanea. A Leopardi il dolore ha regalato, non tolto, una capacità eccezionale di comprensione del mondo come pochi hanno avuto, anche se certo avrebbe preferito non soffrire. Allora, chi si serve del dolore per conoscere, riesce a farlo solo se si oppone accanitamente contro il dolore stesso. Per Leopardi tra gli esseri il più infelice è l’uomo, perché è consapevole della sua sventurata condizione.
Ugo Foscolo (1778/1827) fu tormentato da irrequieto dolore, da quel desiderio di pace e di oblio, da quell’inquietudine che fu comune agli uomini e agli scrittori della generazione romantica. Egli affermò con convinzione che l’uomo è nato più per il dolore che per il piacere e che l’infelicità è insita nella natura dell’uomo. Così scrisse ad Antonietta Fagnani-Arese, che amò profondamente: “Tutto è follia… e quando anche il soave sogno dei nostri amori terminerà, credimi, io calerò il sipario. La gloria, il sapere, l’amicizia, le ricchezze, tutti fantasmi, che hanno recitato fino ad ora nella mia commedia, non fanno più per me. Io calerò il sipario, e lascerò che gli uomini si affannino per fuggire i dolori di un’esistenza, che non sanno troncare». «Quando la malinconia si impadronisce di me, io m’immagino tutto quello che potrebbe rendermi beato, e ch’è il voto di tutti i mortali…, mi figuro di possederlo e sento ch’io sarei egualmente e perpetuamente infelice”.

La fede in Dio indusse un altro grande, Alessandro Manzoni (1785/1873), a considerare il dolore non come una forza bruta, cieca ed inutile, ma come una caratteristica naturale e significativa della condizione umana. Il poeta formula il concetto di “provvida sventura”, leggendo nella sofferenza un segno della presenza di Dio, il quale mette a dura prova le sue creature, ma mai le abbandona. Il dolore è quindi una testimonianza dell’immenso amore di Dio, poiché rende degni di una vita migliore coloro che lo sopportano con rassegnazione e con fede.

UNGARETTI
Anche per Ungaretti l’uomo è una fragile creatura, è un “nomade”, un girovago, alla “folle ricerca di un paese innocente”, dove sia possibile sentirsi in armonia con l’universo, x sottrarsi al “consumarsi senza fine del tutto”. Ungaretti, avverte che l’uomo sarà sino alla fine in balìa di un viaggio verso la morte senza alcuna possibilità d’intervento, perennemente profugo, sradicato, strappato via da un punto fermo in cui riconoscersi e in cui placare la sua sostanza umana (da qui il titolo, ma non definitivo, della 1° raccolta “Allegria di naufragi”). La poesia d’Ungaretti nasce in mezzo alla guerra e al dolore: l’impatto con questa realtà imperiosa della guerra, i suoi orrori e i suoi massacri, lo portano a prendere coscienza delle contraddizioni del vivere umano tra tensione vitale e morte incombente. La guerra, dunque, mettendo l’uomo senza protezione e senza diaframmi di fronte al suo destino, lo rivela nella sua nudità primordiale, nella sua fragilità, nella sua solitudine, nella sua innocenza. Tutta la vita appare vuota desolazione, una “corolla di tenebre” (dice il poeta). Tuttavia è proprio in questa totale disperazione che si può percepire l’infinito nelle cose (come la poesia Mattino) attraverso la parola nuda e scavata, scabra e disseccata, per ritrovare una propria verginità, è l’espressione di questa condizione umana; le parole vengono isolate e scandite, in maniera da evidenziare la carica di significati espressionistici e di valori simbolici di cui ciascuna di esse è portatrice: sentimenti, oggetti, paesaggi. Di qui l’uso dell’analogia, la frantumazione della metrica tradizionale, l’abolizione totale o parziale della punteggiatura, l’emergere delle parole dagli spazi bianchi tra un verso e l’altro; quasi naufragassero in un immenso mare.
MONTALE
Montale, nelle sue liriche, non solo riprende la tecnica del correlativo oggettivo, ma questi temi di denuncia e dolore verso il mondo. Lo riscontriamo nella poesia “Spesso il male di vivere ho incontrato”; qui il poeta ha dato voce all’angoscia di tutta la generazione che aveva conosciuto la guerra e la sua inutilità, temeva il comunismo, subiva recalcitrante fascismo e nazismo e assisteva atterrita all’avvicinarsi della seconda guerra mondiale: un mondo che pareva sul punto di sgretolarsi e dissolversi. Nella poesia il male di vivere è personificato e reso reale dal verbo “ho incontrato”, quasi a riportarlo sul piano delle cose tangibili; non vengono utilizzati paragoni o analogie per descriverlo, ma si denunciano le situazioni e le cose che direttamente lo rappresentano, emblemi in cui si mostrano la sofferenza e il dolore il rivo strozzato che gorgoglia, l’incartocciarsi della foglia riarsa e il cavallo stramazzato, la pietraia, che esprime la desolazione e la sterilità, e il meriggio, del sole a picco, simbolo del disfacimento. “Il male di vivere” non è solo una condizione esistenziale dell’uomo contemporaneo, ma l’incapacità dell’uomo di comunicare; è isolamento, frattura, vita strozzata, poiché siamo un “cuore scordato”. E’ il male dell’“essere”, in quanto c’impedisce di avere delle certezze, di conoscere la realtà e noi stessi. “Il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro/di me”, afferma il poeta; di qui il senso di finitezza, di impotenza, di non-vita, di esperienza del nulla; e dunque negatività, inutilità, aridità. Il titolo stesso della prima raccolta poetica montaliana, “Ossi di seppia”, richiama a cose inaridite, prosciugate, senza vita. La raccolta dichiara anche l’impotenza del poeta di fornire un messaggio di speranza; con lui, su riconoscono anche gli intellettuali europei ed italiani: da Svevo a Pirandello, da Proust a Eliot a Kafka.

PIRANDELLO
In Pirandello, la sofferenza lo accompagna inevitabilmente in ogni “scoperta” relativa alla natura dell’esistenza. La vita è concepita come energia vitale inesauribile, che genera infelicità nell’essere umano, giacché questo s’illude di poter fermare questo flusso in una forma stabile e pacifica. Pirandello individua chiaramente i meccanismi alienanti e ripetitivi dell’inferno tecnologico che riduce l’uomo a semplice manovella (Serafino Gubbio), creando la “malattia industriale”: incomunicabilità, alienazione, “noia”, indifferenza, aridità, impotenza. A questo si aggiunge che l’uomo ha bisogno di credere che la vita abbia un senso; così ciascuno è costretto ad assumere tante “forme” o “maschere“, quanti sono i ruoli che gli vengono imposti dagli altri. Ne deriva un’identità infinitamente mutevole poiché dipendente da un giudizio estraneo e relativo: così il personaggio si guarda vivere (Mattia Pascal).
Questi temi sono affrontati anche da Svevo: esprime un uguale giudizio negativo sulla società del suo tempo e sulla crisi dell’uomo. Svevo, nei suoi romanzi, descrive il problema dell’uomo che non sa e che non può inserirsi nella società a cui appartiene.Svevo è un po’ come Kafka, ed è un po’ come l’imputato del “Processo”, perché la vita è un processo, una prigione. In Svevo tutto è malato, ma ognuno pensa d’essere sano (solo gli intellettuali lo hanno capito) e allora questa “normalità” porta alla distruzione, profetizzata nell’ultima pagina della coscienza di Zeno. In Kafka la normalità acquista invece i caratteri assurdi dell’insignificanza e del nulla della natura umana. Il lettore prova ad indagare, per scovare il senso (del dolore, della colpa), ma alla fine tutto è solo oppressivo e inspiegabile e la morte non risolve nulla. Nella trappola dell’esistenza, come i personaggi kafkiani, si trova Woyzzeck, il protagonista dell’opera di Buchner, resa famosa dopo quasi un secolo dall’adattamento teatrale d’Alban Berg: nella sua vita lo stato di salute mentale e le condizioni divita risultano intrecciati in un unico problema e date le premesse, la sola conseguenza possibile non potrà che essere la tragedia.