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E’ possibile misurare il dolore con apposite scale dedicate: esse permettono di tradurre in un numero il dolore percepito dal paziente. Esistono scale per adulti collaboranti, per bambini e per pazienti con disturbi cognitivi. Approfondisci qui.

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Il dolore acuto è considerato fisiologico e protettivo poiché avvisa immediatamente il soggetto di un pericolo per la salute o sopravvivenza; in questi termini il dolore acuto deve essere considerato un sintomo. Il dolore cronico persiste anche dopo molto tempo, perde la sua capacità di essere un campanello d’allarme e  viene considerato una vera e propria malattia. La sintomatologia è in genere diversa nelle due tipologie di dolore: nella forma acuta il dolore è spesso severo e trafittivo, il paziente risale con facilità all’evento scatenante e indica con precisione il punto dolente. Nel dolore cronico la sintomatologia può apparire meno severa ma tende ad essere continua: il paziente non riesce più a indicare un punto dolente preciso ma una zona, più o meno estesa, dove sono presenti aree di iperalgesia o allodinia. La trasformazione del dolore dalla forma a cura a quella cronica è avvenuta per un cambiamento (prima funzionale e in seguito anatomico-strutturale) delle vie nervose di conduzione. Proprio per le sue caratteristiche di malattia il dolore cronico viene spesso considerato “inutile”.

I farmaci analgesici sono divisi in 3 categorie, a seconda della loro potenza. Alla prima categoria, per il trattamento del dolore lieve, si colloca il paracetamolo. Nella seconda categoria troviamo i farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS) e gli oppioidi deboli (come il trampolo e la codeina) e infine, nella terza categoria troviamo gli oppioidi forti (morfina, fentanyl, ossicodone, tapentadolo, idromorfone). Molto spesso farmaci di diversa potenza possono essere assunti contemporaneamente (esistono formulazioni commerciali con associazioni) che sfruttano l’effetto sinergico di due molecole.

A tutti i farmaci analgesici, a seconda dei casi, possono essere aggiunti gli adiuvanti: farmaci non analgesici che potenziano i farmaci prescritti.

L’infiltrazione peridurale è una tecnica antalgica che consiste nell’iniettare un farmaco in stretta vicinanza di una struttura nervosa a livello della colonna vertebrale. La maggior parte dei pazienti che richiedono un trattamento peridurale è affetto da un dolore di origine neurogena, come, ad esempio, nel frequente caso del dolore radicolare da ernia del disco. L’infiltrazione peridurale si esegue nello spazio omonimo: le strutture nervose midollari sono contenute e protette da 3 involucri concentrici chiamate “meningi”. Partendo dallo strato più a contatto con il tessuto nervoso e procedendo perifericamente si riconoscono “pia”, “aracnoide” e “dura” madre. Esternamente ed intorno alla dura madre vi è il cosiddetto spazio peridurale che rappresenta il target dell’iniezione farmacologica in questo particolare tipo di terapia locale. Il problema per cui comunemente si esegue un ciclo di infiltrazioni peridurali è il dolore neurogeno di origine radicolare, da irritazione di una radice nervosa. Le cause sono principalmente due: compressione della radice nervosa da parte di un’ernia discale o suo intrappolamento nella regione osteo-ligamentosa. Questo avviene, per lo più, per un restringimento degenerativo del forame di coniugazione nelle gravi forme di artrosi (stenosi del canale midollare con “claudicato neurogena”). Esecuzione: si esegue una minima anestesia cutanea locale e con l’ago di Thuoy si raggiunge lo spazio peridurale per iniettare la miscela farmacologica. Dopo l‘iniezione il paziente viene tenuto sul fianco sul fianco per alcuni minuti, quindi ancora sotto controllo in ambulatorio per circa 30’ per scongiurare o trattare l’eventuale insorgenza di complicanze. E’ opportuno che il paziente venga sempre accompagnato in ambulatorio poiché può capitare nell’immediato periodo post-infiltrazione di avere un senso di intorpidimento agli arti inferiori dovuto all’azione dei farmaci iniettati. Approfondisci qui

Il “timing” di questa procedura non può essere stabilito a priori. L’andamento della situazione clinica detta il numero e latempistica delle infiltrazioni da eseguire. Una mancata risposta a 2 infiltrazioni peridurali sconsiglia di insistere oltremodo in questa pratica. Viceversa, un buon risultato clinico può incoraggiare il proseguimento della terapia. La terapia infiltrante può essere ripresa anche a distanza di alcuni mesi in caso di un lungo periodo di benessere seguito, poi, da un nuovo episodio di recrudescenza dei sintomi. Approfondisci qui

  • Si utilizzano solo nel malato terminale: alcuni oppioidi come la morfina trovano impiego in cardiologia (infarto, edema polmonare), nel dolore benigno e nel dolore postoperatorio
  • Causano depressione respiratoria: gli oppioidi non comportano necessariamente depressione respiratoria: utilizzando dosi e modalità di somministrazione corrette è estremamente rara. Gli oppiacei sono quindi analgesici sicuri anche nei pazienti con disturbi respiratori
  • E’ pericoloso aumentare la dose: la morfina non ha effetto “tetto”: si può utilizzare senza limiti a seconda delle esigenze del paziente
  • Causano dipendenza psichica:  non generano sempre una dipendenza psichica: nel malato di cancro la dipendenza, quando si instaura, è di tipo fisico; quella psicologica non si verifica praticamente mai nei pazienti trattati con oppiacei a scopo antalgico. Alla scomparsa del dolore la terapia può essere in qualunque momento ridotta progressivamente e infine sospesa
  • La morfina accorcia la vita: semmai la morfina e gli oppioidi migliorano la qualità della vita
  • Instaurano immediata tolleranza: gli oppioidi non instaurano una rapida ed incontrollata tolleranza; la necessità per il paziente di aumentare le dosi di oppiacei per il controllo del dolore è per lo più legata alla progressione della malattia. In un numero limitato di malati è possibile che si instauri una condizione di tolleranza che richiede il progressivo frequente aumento delle dosi.
  • Generano euforia: la somministrazione di oppiacei non genera euforia, si verifica raramente e, per lo più, non rappresenta un ostacolo per il malato
  • L’assunzione di oppioidi implica il rimanere a casa: l’assunzione di oppioidi ha l’obiettivo esattamente contrario, quello cioè di migliorare la qualità della vita e permettere al paziente di sopportare meglio il dolore
  • Provocano sempre sonnolenza: la morfina provoca sonnolenza solo nei primi giorni di trattamento, è frequente nei primi giorni di trattamento e tende a scomparire spontaneamente proseguendo con la terapia
  • Provocano stato confusionale: la morfina non provoca necessariamente stato confusionale quando è dovuto a sovradosaggio è facilmente dominabile riducendo le dosi o cambiando tipo di oppioide
  • Una volta assunti non se ne può fare a meno: se la sintomatologia dolorosa per cui erano stati prescritti scompare, gli oppioidi possono essere eliminati, a patto di farlo gradualmente

Gli effetti collaterali più comuni  degli oppioidi sono sonnolenza e confusione mentale, stitichezza, nausea e vomito.

La sonnolenza e la confusione mentale possono manifestarsi nel 10-20% dei casi durante i primissimi giorni di terapia, ma di norma scompaiono entro 3-5 giorni. Se compaiono più tardi e persistono più a lungo, sono per lo più legati a sovradosaggio e possono essere risolti riducendo la dose, aumentando la frequenza delle somministrazioni o cambiando il farmaco. La legislazione italiana limita la guida per chi assume oppioidi senza distinguere tra uso a scopo terapeutico e scopo illecito; per tale motivo non è opportuna la guida di veicoli o attività che richiedano attenzione, almeno finché non si è raggiunto un dosaggio stabile del farmaco. Nel 14% dei casi si possono manifestare stati allucinatori.

La stitichezza è l’effetto collaterale più frequente e fastidioso, aggravato da scarsa alimentazione e idratazione, come anche dall’immobilità. Se non trattata, può anche determinare l’occlusione intestinale. Per tale motivo, alla somministrazione di oppioidi si devono sempre associare misure per garantire il corretto funzionamento dell’intestino, come ad esempio l’assunzione quotidiana di un lassativo (macrogol) per tutta la durata del trattamento e una dieta ricca di alimenti ad alto contenuto di fibre (crusca, frutta, insalata condita con molto olio, cavoli, carote, ecc). Se dopo un paio di giorni di trattamento l’attività intestinale non è ancora ripresa, è opportuno incrementare l’assunzione di lassativi e l’effettuazione di clisteri.

Nausea e vomito sono frequenti e molto fastidiosi, ma sono, in genere, sintomi precoci, che tendono a scomparire dopo pochi giorni di trattamento. Si possono prevenire o curare efficacemente con la somministrazione di metoclopramide o di aloperidolo.

La maggior parte degli effetti collaterali dei farmaci antiinfiammatori non steroidei è attribuibile all’inibizione delle due le isoforme dell’enzima ciclossigenasi, quindi all’effetto inibitorio generalizzato sulla sintesi delle prostaglandine.

Di conseguenza, gli effetti indesiderati più frequenti sono correlati all’apparato gastrointestinale, dove le prostaglandine svolgono un importante ruolo protettivo della mucosa gastrica; tra questi effetti indesiderati ricordiamo bruciori gastrici, vomito, diarrea e nausea.

Rischio di ulcera peptica: un altro inconveniente di questi farmaci è la possibilità di formazione di vere e proprie ulcere della mucosa gastrointestinale qualora l’uso diventi abituale o prolungato; queste ulcere possono essere lievi ma in alcuni casi particolari i FANS possono produrre emorragie gastriche che nei casi più gravi possono richiedere un ricovero d’urgenza.

Insufficienza renale: l’azione dei FANS si esplica anche a livello della funzionalità renale. L’inibizione delle prostaglandine, che esercitano un’azione protettiva sul glomerulo renale, implica la diminuzione della filtrazione renale (azione sull’arteriola afferente del glomerulo) e al contempo la ritenzione del sodio. Tutto ciò comporta, specie nel paziente a rischio (insufficienza renale latente, età avanzata, disidratazione, etc.) una diminuzione della funzionalità renale e quindi una insufficienza renale acuta.

Prevenzione: questi effetti indesiderati possono essere ridotti assumendo i FANS per via orale immediatamente dopo i pasti, quindi a stomaco pieno, oppure in associazione con antiacidi o farmaci ad azione gastroprotettiva della mucosa. Per evitare la comparsa di ulcerazioni della mucosa gastrica durante l’assunzione dei FANS, si raccomanda di evitare la contemporanea assunzione di alcool. Quindi la somministrazione dei FANS non è controindicata soltanto in presenza di un’intolleranza individuale accertata, ma anche ai pazienti affetti da ulcere gastro-duodenali pregresse o in atto, ai pazienti con precedenti emorragie digestive o ai pazienti in trattamento con altri farmaci anticoagulanti.

Fattori di Rischio: per i motivi sopracitati e per evitare indesiderate interazioni farmacologiche, è vivamente raccomandabile consultare il proprio medico curante quando si è in terapia con altri farmaci oppure quando il paziente è un bambino, una donna incinta o in allattamento, oppure un paziente di età geriatrica. E’ stato accertato da diversi studi clinici che il rischio di effetti collaterali importanti derivanti dall’uso di farmaci antiinfiamatori non steroidei aumenta con l’aumentare dell’età del paziente; tale fenomeno sembra correlato al fatto che le difese della mucosa gastrica e duodenale diminuiscono all’aumentare dell’età.
Altri fattori di rischio, che possono favorire la comparsa di ulcere gastriche in seguito alla somministrazione dei FANS, includono la contemporanea somministrazione di cortisonici, la presenza di alcune malattie come il diabete e alcuni tipi di cardiopatie, oltre ad una lunga durata del trattamento antinfiammatorio non steroideo. Inoltre, la somministrazione contemporanea di più FANS può aumentare la frequenza e la gravità dei danni all’apparato digerente.

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In evidenza

Sempre utili

Il paracetamolo (conosciuto meglio come Tachipirina) è un farmaco ad azione analgesica e antipiretica largamente utilizzato sia da solo sia in associazione ad altre sostanze, ad esempio nei comuni preparati da banco per le forme virali da raffreddamento, o nei farmaci destinati al trattamento del dolore acuto e cronico. Nella scala analgesica dell’OMS si colloca al primo gradino, quindi tra i farmaci utili nel trattamento del dolore lieve. Il paracetamolo non è da considerarsi un farmaco antinfiammatorio non steroideo (FANS) perché non ha attività antiaggregante e possiede proprietà antinfiammatorie molto deboli. Potenzialmente tossico per fegato e reni (ad alti dosaggi) può essere eliminato grazie all’utilizzo di acetilcisteina o glutatione. Studi clinici effettuati sull’uomo non hanno evidenziato effetti teratogeni o fetotossici, quindi non c’è evidenza di danno nelle fasi avanzate della gravidanza; tale sostanza è escreta nel latte materno in quantità clinicamente non rilevanti e sulla base dei dati di letteratura medica disponibili, l’uso del paracetamolo nelle donne che allattano al seno non è controindicato.

L’attività del paracetamolo come analgesico debole è dovuta all’inibizione dell’attività della ciclossigenasi cerebrale (COX3), ma è stata documentata anche un’azione simil-cannabinoide e simil-oppioide. L’utilizzo del paracetamolo come unico analgesico, preferibilmente ad orari fissi e non al bisogno, è destinato alle fasi iniziali del dolore acuto-cronico. Successivamente è necessario aumentare i dosaggi o affiancare al paracetamolo un’altro farmaco ad azione analgesica. Per questo motivo esistono oggi in commercio parecchi prodotti con il paracetamolo in associazione a: codeina, tramadolo, ibuprofene, ossicodone. Il principio delle associazioni è quello di agire su recettori diversi con dosaggi contenuti.

Gli antinfiammatori o FANS (farmaci antinfiammatori non steroidi) costituiscono un ampio gruppo di molecole che agiscono sui mediatori del processo flogistico. In particolare essi bloccano un gruppo di enzimi (le ciclossigenasi) che incentivano il fenomeno infiammatorio; bloccando questi enzimi i FANS, tuttavia, inibiscono anche alcune molecole “protettive”, le prostaglandine. In pratica, i FANS inibiscono il processo infiammatorio, limitano il dolore e l’aumento di temperatura ma allo stesso tempo risultano tossici per la mucosa gastrica, il glomerulo renale e la coagulazione del sangue. A livello terapeutico, dunque, i FANS sono indicati per mitigare l’infiammazione a patto che il loro utilizzo sia limitato nel tempo (possono essere utilizzati soltanto nella fase acuta della patologia). Inoltre essi sono controindicati nei soggetti con scompenso cardiaco, insufficienza renale e disturbi della coagulazione. Alcuni preparati commerciali, pur di diminuire il dosaggio di questi farmaci, li associano ad altre sostanze: esistono associazioni FANS+paracetamolo, FANS+oppioide debole, etc.

Classe di farmaci utilizzati principalmente come analgesici per il dolore da moderato a intenso. Queste molecole sono ritenute responsabili della regolazione della percezione del dolore e, tra l’altro, sembrano essere coinvolte nell’analgesia indotta dall’agopuntura. I recettori oppioidi attualmente conosciuti sono tre (mu, delta e kappa), ed esplicano effetti farmacologici diversi. Gli effetti farmacologici degli oppioidi sono: analgesia, riduzione stimolo della tosse, riduzione della motilità intestinale, euforia, depressione respiratoria

fentanyl: oppioide di sintesi 80 volte più potente della morfina la cui velocità e breve durata d’azione lo rendono un farmaco anestetico; metadone: ha il vantaggio di poter essere somministrato per via orale e la sua durata d’azione è prolungata per cui le crisi di astinenza sono meno drammatiche e più controllabili; idromorfone: più potente della morfina, ha la caratteristica di non utilizzare gli enzimi epatici per la degradazione e di non produrre metaboliti attivi: risulta utile nei pazienti in politerapia; ossicodone, tapentadolo: disponibili per somministrazione orale sono utili nel dolore con componente neuropatica; tramadolo e codeina: oppioidi deboli con effetto “tetto”.

L’infiltrazione dell’articolazione dell’anca si esegue in ecoguida: possono essere somministrati anestetici locali e cortisone quando si vuole ottenere un effetto analgesico-antinfiammatorio di durata limitata, oppure acido jaluronico (viscosupplementazione) quando oltre a tali effetti si vuole anche ottenere una “lubrificazione” dell’articolazione. Utilizzando la guida ecografica real time, il posizionamento dell’ago risulta più veloce, semplice e maggiormente accurato. L’acido jaluronico è quindi iniettato nell’anca e la sua presenza all’interno dell’articolazione è evidenziata dal monitoraggio in tempo reale (visualizzazione diretta di liquido viscoso) utilizzando anche l’immagine di power-doppler (segnali di flusso nel recesso intra-articolare). In tutti i casi si ha la visualizzazione diretta dell’introduzione dell’ago nella cavità articolare e dell’iniezione dei prodotti all’interno della stessa. La durata dell’esecuzione della tecnica iniettiva oscilla tra i 7 e i 10 minuti. Non occorre anestesia locale o generale.

E’ una tecnica antalgica che consiste nell’iniettare un farmaco in stretta vicinanza di una struttura nervosa a livello della colonna vertebrale. La maggior parte dei pazienti che richiedono un trattamento peridurale è affetto da un dolore di origine neurogena, come, ad esempio, nel frequente caso del dolore radicolare da ernia del disco. Come suggerisce il nome stesso, intorno alla “Dura Madre”. Per capire cos’è lo spazio peridurale: le strutture nervose sono contenute e protette da 3 involucri concentrici chiamate “meningi”. Partendo dallo strato più a contatto con il tessuto nervoso e procedendo perifericamente si riconoscono “pia”, “aracnoide” e “dura madre”. Esternamente ed intorno alla dura madre vi è il cosiddetto spazio peridurale che rappresenta il target dell’iniezione farmacologica  in questo particolare tipo di terapia locale.

 

Indicazioni

Il problema per cui comunemente si esegue un ciclo di infiltrazioni peridurali è il dolore neurogeno di origine radicolare, da irritazione. Le cause sono principalmente due: compressione della radice nervosa da parte di un’ernia discale o suo intrappolamento nella regione osteo-ligamentosa da cui fuoriesce dalla colonna vertebrale. Questo avviene, per lo più, per un restringimento degenerativo del forame di coniugazione nelle gravi forme di artrosi (stenosi del canale vertebrale con “Claudicatio neurogena”).

 

Meccanismo d’azione

L’infiltrazione peridurale ha come finalità l’iniezione il farmaco direttamente sulla radice nervosa irritata, causa del dolore. Comunemente si utilizza una miscela di steroidee anestetico, che hanno rispettivamente attività antiinfiammatoria ed analgesica. Spesso, questo è sufficiente per ottenere un sorprendente e rapido miglioramento della sintomatologia dolorosa.

 

Tecnica di esecuzione

Su un lettino idoneo si pone il paziente sul fianco dal lato del dolore con le gambe raccolte al petto, oppure in posizione seduta. Quindi, identificato e segnato lo spazio vertebrale su cui eseguire l’infiltrazione, si disinfetta la cute e si prepara un campo sterile con la teleria del set monouso. Si esegue una minima anestesia cutanea locale e con l’ago di Thuoy si raggiunge lo spazio peridurale per iniettare la miscela farmacologica. Dopo l‘iniezione il paziente viene tenuto sul fianco sul fianco per alcuni minuti, quindi ancora sotto controllo in ambulatorio per circa 30’ per scongiurare o trattare l’eventuale insorgenza di complicanze. E’ opportuno che il paziente venga sempre accompagnato in ambulatorio poiché può capitare nell’immediato periodo post-infiltrazione di avere un senso di intorpidimento agli arti inferiori dovuto all’azione dei farmaci iniettati.

 

Sicurezza

Tutta la procedura viene eseguita in asepsi: il medico procede ad un accurato lavaggio chirurgico delle mani, calzerà guanti monouso e indosserà cappellino e mascherina. I parametri vitali del paziente (pulsossimetria  e frequenza cardiaca) saranno costantemente monitorati. In alcuni casi (paziente molto ansioso o con tendenza all’ipertono vagale) viene incanalata una vena periferica.

 

Quante infiltrazioni eseguire?

Il timing di questa procedura non può essere stabilito a priori. L’andamento della situazione clinica detta il numero e latempistica delle infiltrazioni da eseguire. Una mancata risposta a 2 infiltrazioni peridurali sconsiglia di insistere oltremodo in questa pratica. Viceversa, un buon risultato clinico può incoraggiare il proseguimento della terapia. La terapia infiltrante può essere ripresa anche a distanza di alcuni mesi in caso di un lungo periodo di benessere seguito, poi, da un nuovo episodio di recrudescenza dei sintomi.

 

Controindicazioni

Certamente un’infiltrazione peridurale è una tecnica invasiva. Per prima cosa bisogna accertarsi che il paziente non sia allergico ai farmaci che si decide di iniettare. Inoltre, il paziente che deve essere sottoposto ad una terapia peridurale non deve avere problemi di coagulazione. Se assumere anticoagulanti e antiaggreganti deve sospenderli entro un tempo ragionevole per non porlo a rischio di ematomi nella sede di iniezione. Per chi assume terapie anticoagulanti è d’obbligo eseguire prima della procedura un esame completo della coagulazione. Una controindicazione relativa è rappresentata dalle gravi deformità della colonna (ad es. scoliosi gravi) o stenosi degenerative del canale vertebrale in cui i tentativi di raggiungere con l’ago di Thuoy lo spazio peridurale sono spesso infruttuosi. Altra controindicazione relativa è un deficit neurologico (ad es. un disturbo di forza del piede): tuttavia il periodo di insorgenza della sintomatologia, l’entità ed altri aspetti clinici sono parametri da valutare singolarmente caso per caso per stabilire se una terapia peridurale è un’opportunità valida da preferire, piuttosto, ad un trattamento microneurochirurgico.

 

Rischi connessi alla procedura

I rischi sono legati principalmente alle rare complicanze infettive o neurologiche: per questo un’infiltrazione è bene che venga eseguita in perfetta asepsi utilizzando idonei set chirurgici monouso disponibili sul mercato e da personale medico che abbia esperienza in chirurgia vertebrale o anestesia spinale. Un ulteriore rischio, peraltro molto remoto, è il sanguinamento all’interno dello spazio peridurale: per questo motivo, i pazienti che assumono antiaggreganti e anticoagulanti devono sospendere tali farmaci.

Sebbene conosciuta ed usata con finalità chirurgiche da circa 60 anni, prevalentemente per la terapia della nevralgia trigeminale ed interventi neuroablativi per il trattamento del dolore, solo recentemente ha conosciuto un’ampia diffusione. La radiofrequenza si basa sull’applicazione di onde radio ad un elettrodo che per questo si riscalda e produce l’effetto desideraro, in genere coagulando o “bruciando” il tessuto. Più recentemente è entrata nell’uso la radiofrequenza pulsata, usata con gli stessi scopi, ma più delicata. La coblazione, o “cool ablation” (ablazione fredda) si basa anch’essa sulla radiofrequenza, e produce una dissociazione molecolare, con tagli netti e precisi. Il tessuto “vaporizza” come plasma. La neurolesione a radiofrequenza consiste nel ledere il nervo che si ritiene causa del dolore. La lesione avviene tramite la generazione di onde a radiofrequenza che permettono di ledere parzialmente (radiofrequenza pulsata) o completamente (radiofrequenza continua) la fibra nervosa interessata. La procedura viene eseguita in anestesia locale e richiede un ricovero in day hospital/day surgery. Le indicazioni principali per tale procedura sono le lombalgie/cervicalgie dovute a problemi delle faccette articolari della colonna, alcune neuropatie periferiche (ad esempio neuropatia del nervo grande occipitale per il trattamento della cefalea occipitale) e alcuni problemi articolari come la sacroileite cronica. Nel caso delle lombalgie/cervicalgie da artrosi delle feccette articolari, si va a ledere un particolare nervo che innerva quest’area permettendo in tal modo di “interrompere” il segnale del dolore garantendo la risoluzione della lombalgia. Nel caso delle infiammazioni croniche dell’articolazione invece bisogna andare a ledere tutti i nervi che garantiscono l’innervazione di quella struttura in modo da permettere una completa analgesia. Infine nel caso di lesioni nervose periferiche bisogna effettuare la procedura al livello o prima del danno neurologico in modo da non permettere al segnale doloroso di passare. In questo caso è possibile effettuare la procedura solo se il nervo non ha anche funzione motoria, per evitare un ulteriore danno radicolare.

La Pens-therapy (Stimolazione Elettrica Percutanea dei Nervi periferici e delle terminazioni nervose periferiche) è una procedura indolore e mini invasiva mirata al trattamento del dolore neuropatico cronico resistente alle terapie convenzionali. I campi di applicazione in cui si sono avuti risultati efficaci sono:

  • cefalea muscolo-tensiva
  • dolori da cicatrice chirurgica
  • dolore mio-fasciale
  • cervicobrachialgia cronica
  • nevralgia del trigemino
  • dolori fibromialgici
  • nevralgia occipitale

Il dolore neuropatico, isolato o in associazione con una componente nocicettiva somatica, è di difficile gestione e affligge cronicamente migliaia di pazienti con diverse patologie. Molto spesso le terapie farmacologiche sono insufficienti per il trattamento e devono essere considerate opzioni più invasive, fino alla stimolazione del midollo spinale. In effetti, la neuromodulazione è diventata un’opzione efficace quando i disturbi neuropatici cronici sono refrattari ai trattamenti tradizionali ei fenomeni di sensibilizzazione centrale e ipereccitabilità si stabiliscono in una forma definitiva. L’azione dell’elettricità per alleviare il dolore si basa sui meccanismi di inibizione dei segnali dolorosi nel corno dorsale del midollo spinale e sull’attivazione del decorso dei percorsi inibitori, anche se non sono ancora ben spiegati. Tuttavia la neuromodulazione centrale è invasiva, richiede abilità particolari e ha costi elevati. La neuromodulazione periferica rappresenta un approccio sempre più comune e nella pratica clinica sono disponibili 3 metodi: stimolazione del nervo periferico impiantato, stimolazione del campo nervoso periferico e stimolazione del nervo elettrico percutaneo (PENS). La PENS Therapy utilizza aghi di precisione sottili inseriti attraverso la pelle dell’area dolorosa fornendo una stimolazione elettrica alternata per un periodo prefissato di tempo. Esistono studi randomizzati controllati e serie di casi disponibili su PubMed su PENS per disturbi di cefalea, dolore neuropatico periferico (sciatica, diabete, iperalgesia superficiale) e altri dolori cronici (collo, lombari, pelvici, osteoartrosi dell’anca) , ma quasi tutti hanno utilizzato diverse sonde contemporaneamente e programmi di stimolazione della durata di diverse settimane.

La mesoterapia (anche intradermoterapia distrettuale) è una pratica medica che consiste nell’inoculazione intradermica distrettuale e/o loco regionale di piccole quantità di sostanze, siano esse farmaci classici oppure prodotti fitoterapici od omeopatici. In pratica essa consiste in consiste in un’iniezione intradermica di farmaci; tale iniezione viene praticata tramite appositi aghi che possono avere lunghezze diverse (generalmente 4, 6 e 12 mm) e un diametro di 0,4 mm; sono i cosiddetti aghi di Lebel e gli aghi utilizzati per la scleroterapia delle teleangectasie. La mesoterapia viene indicata in diversi ambiti, in particolar modo in medicina sportiva, flebologia, terapia del dolore, dermatologia e medicina estetica. Per quel che riguarda la terapia del dolore, la mesoterapia trova indicazioni nel trattamento di varie condizioni patologiche quali coxalgie, gonalgie, rachialgie, rizoartrosi, artrosi delle mani, cefalea muscolo-tensiva, cervicalgie, torcicollo, periartrite scapolo-omerale, fibromialgia, lombosciatalgie e nevralgie.

Poichè l’uso dei farmaci è socialmente accettato, vi è una tendenza a sottovalutare questo problema. La dipendenza da farmaci nella  maggior parte delle persone che assume farmaci dietro prescrizione medica, lo fa in modo responsabile. Coloro, invece che ne abusano o praticano l’automedicazione sono a rischio di sviluppare una dipendenza.

La dipendenza da farmaci: è un fenomeno che può potenzialmente verificarsi per qualsiasi sostanza o farmaco, quindi non necessariamente una sostanza d’abuso, comportando il cosiddetto fenomeno del craving. Il craving è costituito dal desiderio intenso ed irrefrenabile di assumere una sostanza psicotropa, i cui effetti sono stati già sperimentati in precedenza. Questo desiderio arriva ad assumere le caratteristiche dell’impellenza e della compulsività, soprattutto in presenza di specifici e particolari stimoli e rinforzi, sia interni che esterni.Il rinforzo è il meccanismo in virtù del quale viene indotta in un soggetto la comparsa di uno schema di comportamento (in ambito educativo, ad esempio, viene elargita una ricompensa -rinforzo positivo- quando il soggetto è in grado di risolvere un compito, mentre viene inflitta una punizione -rinforzo negativo- quando non vi riesce).Il craving è un meccanismo di natura prevalentemente biologica influenzato da specifici sistemi neurotrasmettitoriali che sono quelli deputati al controllo del piacere e della gratificazione; infatti, quando si somministra una sostanza d’abuso, si verifica un aumento della concentrazione di dopamina e serotonina a livello del vallo sinapticoLa dipendenza da farmaci può essere solo psichica o psichica e fisica insieme. Essa è di solito associata al fenomeno della tolleranza.La Dipendenza da Farmaci è una seria forma di dipendenza psico-fisica provocata e tenuta attiva dall’assunzione ripetuta ed eccessiva dei farmaci stessi. Sarà bene chiarire che non vi sono medicinali che fanno solo bene ed altri che fanno solo male; è piuttosto l’uso (secondo tempi e modalità) che di essi ne viene fatto a poter creare serie conseguenze psico-fisiche.Se infatti vengono utilizzati sotto prescrizione e controllo medico, i Farmaci, interagendo con determinate sostanze e cellule dell’organismo, riescono a svolgere correttamente la loro azione terapeutica. Laddove, invece, vi sia un utilizzo non controllato, tali farmaci possono provocare una vera e propria dipendenza psico-fisica, con tutte le sue conseguenze.Purtroppo non sono poche le figure pubbliche, in tutto il mondo, che non hanno avuto l’umiltà e l’onesta di ammettere la propria condizione di dipendenza chiedendo aiuto e per tali motivi hanno avuto seri danni o hanno perso la vita a causa di un’overdose.In particolare i farmaci che possono maggiormente indurre e mantenere una situazione di dipendenza sono:

  • Antidolorifici e Antinfiammatori,
  • Ansiolitici (Benzodiazepine),
  • Barbiturici,
  • Alcuni farmaci Dimagranti,
  • i Narcotici (es. Morfina, Metadone, etc.),
  • Sonniferi,
  • Stimolanti (es. Amfetamine, Metamfetamine).

Il termine fibromialgia significa dolore nei muscoli e nelle strutture connettivali fibrose (i legamenti e i tendini). Questa condizione viene definita “sindrome” poiché esistono segni e sintomi clinici che sono contemporaneamente presenti (un segno è ciò che il medico trova nella visita; un sintomo è ciò che il malato riferisce al dottore). La fibromialgia spesso confonde poiché alcuni dei suoi sintomi possono essere riscontrati in altre condizioni cliniche. Il termine fibrosite era una volta utilizzato per descrivere questa condizione. Il suffisso -ite significa infiammazione- un processo che può determinare dolore, calore, tumefazione e rigidità. I ricercatori hanno evidenziato che l’infiammazione non è una parte significativa di questa sindrome. Il nome fibromialgia o sindrome fibromialgica è pertanto più accurato, ed ha ampiamente rimpiazzato i vecchi termini utilizzati. La fibromialgia interessa principalmente i muscoli e le loro inserzioni sulle ossa. Sebbene possa assomigliare ad una patologia articolare, non si tratta di artrite e non causa deformità delle strutture articolari. La fibromialgia è in effetti una forma di reumatismo extra-articolare o dei tessuti molli. La sindrome fibromialgica manca di alterazioni di laboratorio. Infatti, la diagnosi dipende principalmente dai sintomi che il paziente riferisce. Alcune persone possono considerare questi sintomi come immaginari o non importanti. Negli ultimi 10 anni, tuttavia, la fibromialgia è stata meglio definita attraverso studi che hanno stabilito le linee guida per la diagnosi. Questi studi hanno dimostrato che certi sintomi, come il dolore muscoloscheletrico diffuso, e la presenza di specifiche aree algogene alla digitopressione (tender points) sono presenti nei pazienti affetti da sindrome fibromialgica e non comunemente nelle persone sane o in pazienti affetti da altre patologie reumatiche dolorose.

L’herpes zoster (HZ) o fuoco di Sant’Antonio è un’infezione acuta associata alla riattivazione del virus varicella-zoster (VZV); è caratterizzato da dolore monolaterale e da un’eruzione vescicolosa o bollosa limitata al territorio di innervazione di un nervo sensitivo (dermatomero). La complicanza più importante è rappresentata dalla nevralgia post-zosteriana, con dolore che persiste per mesi dopo la guarigione delle lesioni cutanee. L’herpes zoster non può essere trasmesso ma è invece possibile che il virus causi la varicella in persone che non ne hanno ancora sofferto. Il virus della varicella rimane latente in alcuni nervi del midollo spinale o della regione testa-collo. In alcuni casi il virus si può riattivare, moltiplicarsi e muoversi seguendo le fibre nervose verso la pelle dove compaiono vescicole dolorose. La malattia si manifesta soprattutto nelle persone anziane, in seguito a stati di stress fisici ed emotivi, in presenza di immunosoppressione farmacologica o di malattie che indeboliscono il sistema immunitario. In genere la malattia si risolve spontaneamente entro poche settimane. Creme e farmaci antivirali orali possono rendere più veloce la guarigione e migliorare i sintomi. Per il dolore, sintomo che può rimanere anche per mesi, possono essere usati adeguati farmaci anti-dolore. Per alleviare il dolore si possono usare analgesici (es. lidocaina) mentre la terapia, che deve essere iniziata il più presto possibile, si avvale dell’uso di creme e antivirali sistemici (famciclovir orale, valaciclovir e aciclovir). Il controllo della nevralgia post-erpetica richiede un’adeguata terapia del dolore. Può essere utile associare vitamina B12 e/o terapia con steroidi.

Il dolore oncologico, spesso chiamato anche “maligno”, è associato alla malattia neoplastica. In realtà non tutti i tumori maligni provocano dolore (si pensi alle leucemie) e non tutti i tumori benigni sono esenti da sintomatologia dolorosa (ad esempio nel caso in cui comprimono un tronco nervoso). Il dolore oncologico è generalmente dovuto all’interessamento di fibre nervose, periostio, fasci connettivali, etc. la cui distensione o rimaneggiamento sono causa di intenso dolore. Proprio per queste sue caratteristiche il dolore oncologico va considerato di tipo “misto”, cioè nocicettivo e neuropatico. Il dolore di fondo durante malattia neoplastica è generalmente costante con episodiche riacutizzazioni (“breakthrough cancer pain”, BTcP): compito del terapista del dolore è quello di trattare in primis il dolore di fondo e prevedere farmaci “di soccorso” per il BTcP. Le molecole più indicate nel trattamento del dolore oncologico sia di base che episodico sono gli oppioidi deboli e forti. In alcune situazioni, ad esempio in presenza di metastasi ossee, è necessario l’utilizzo di antinfiammatori (FANS). Utile, in molti casi il contemporaneo utilizzo di anticonvulsivanti (pregabalin e gabapentin), antidepressivi e steroidi. Nel malato oncologico, oltre alla malattia neoplastica, possono risultare dolorose le procedure, gli interventi chirurgici e la radio-chemioterapia. In molti pazienti “cancer-survivor”, cioè sopravvissuti al cancro, la malattia oncologica può essere stata debellata ma può permanere una sintomatologia dolorosa cronica post-radioterapia.

Il dolore centrale è l’espressione di una lesione e/o disfunzione primitiva o secondaria del sistema nervoso centrale. Dipende quindi da una lesione totale o parziale lungo le vie spino-talamo- corticali e può essere di origine cerebrale o spinale. Ha incidenza variabile a seconda dell’eziologia: 8-10% nei pazienti colpiti da ictus, 30% in quelli affetti da sclerosi multipla, 30-60% nei paraplegici.   A livello midollare le cause più frequenti sono: lesioni traumatiche, tumori, placche da sclerosi multipla, siringomielia.
In questa review si prendono in esame i principali sintomi che contribuiscono ad accreditare la diagnosi di dolore centrale, neuropatico o talamico. La presenza di lesione nervosa, valutata in imaging, e i test neurofisiologici permettono di completare il quadro diagnostico. La diagnosi di dolore centrale, (così come quella di dolore neuropatico periferico), è fondamentale per sviluppare un piano di trattamento corretto. Il medico algologo deve approfondire tutti i possibili meccanismi che hanno generato il dolore in ciascun paziente, includendo fattori fisiologici, psicologici e sociali.
I fini della diagnosi sono:- localizzare il dolore;- valutarne l’intensità e la qualità;- studiarne il decorso nel tempo;- considerarne i fattori precipitanti o allevianti;- approfondire le cause fisiopatologiche del dolore centrale del paziente;- spiegare la risposta comportamentale del paziente al dolore;- valutare lo stato funzionale del paziente (attività durante un giorno tipico);- identificare le condizioni di comorbidità correlate al dolore (mediche e psicologiche);- valutare i fattori psicosociali che possono essere una componente integrale della condizione del paziente; se necessario, ricorrere all’assistenza di specialisti di altre discipline per sviluppare una diagnosi e un trattamento multidisciplinari.

Terapia farmacologica: Il dolore centrale neuropatico è una condizione difficile da trattare.Una review dei lavori sull’argomento suggerisce che un singolo farmaco offre nella migliore delle ipotesi un beneficio clinicamente importante solo nel 40-60 per cento dei pazienti e un completo sollievo in un numero molto minore. Quando la monoterapia ha un’azione analgesica insufficiente può essere utile un approccio basato sul meccanismo d’azione dei farmaci per la selezione di un trattamento aggiuntivo. Questo approccio si basa su combinazioni di farmaci con meccanismo d’azione complementare. Dal momento che l’’ipereccitabilità del sistema nervoso è associata a un’anomala regolazione dei canali del sodio, questo processo rappresenta un obiettivo primario per un intervento terapeutico. A livello spinale, il blocco dei canali del calcio, in particolare di quelli di tipo N, può modificare significativamente la reazione al dolore. La farmacoterapia del dolore neuropatico si basa su una serie di osservazioni emerse da studi clinici e sperimentali.

  • farmaci attivi sui canali ionici
  • analgesici oppioidi
  • cannabis medica

La nevralgia del trigemino è una sindrome dolorosa cronica che colpisce il nervo trigemino, o quinto nervo cranico, uno dei nervi più grandi della testa. È un disturbo che causa episodi dolorosi intensi, sporadici e improvvisi, che possono durare da pochi secondi ad alcuni minuti. Tali attacchi possono susseguirsi in rapida successione e l’intensità del dolore può risultare inabilitante sia a livello fisico che mentale.

I sintomi che caratterizzano la nevralgia del trigemino sono:

  • dolore, che può essere improvviso e lancinante, spesso con sensazione di bruciore,
  • toccare la guancia può causare veri e propri lampi di dolore descritti dal paziente come simili a scosse elettriche,
  • la sensazione può essere limitata a una piccola zona o interessare gran parte della metà del viso interessata

Gli attacchi spesso peggiorano nel tempo, con intervalli fra un episodio e il successivo sempre più brevi.

La terapia prevede l’uso di farmaci o, in assenza di risultati, della chirurgia.

La nevralgia del trigemino è caratterizzata da attacchi dolorosi improvvisi e lancinanti, simili a volte a una scossa elettrica, che di solito si avvertono su un lato della mascella o della faccia. Il dolore può anche coinvolgere entrambi i lati del viso, ma non allo stesso momento.

Gli attacchi, che generalmente durano alcuni secondi e si possono anche ripetere in rapida successione, vanno e vengono nel corso della giornata. Episodi di questo genere possono durare giorni, settimane e anche mesi, e poi sparire per mesi o addirittura anni. Nei giorni che precedono un attacco alcuni pazienti possono sperimentare sensazioni di formicolio e di intorpidimento, oppure un dolore acuto e in qualche modo prolungato.

In genere durante il riposo notturno il paziente non avverte sintomi,

Gli attacchi possono essere scatenati dalla vibrazione o dal contatto con la guancia (ad esempio quando ci si rade, o si lava la faccia, o ci si trucca), oppure lavandosi i denti, mangiando, bevendo, parlando o per l’esposizione al vento. Il dolore può riguardare una piccola area del volto o essere più diffuso. Solo in rari casi le fitte di dolore si verificano di notte, quando il paziente dorme.

  • Se il dolore è improvviso, intermittente, acuto e lancinante, o scioccante, allora si dice che il paziente soffre di nevralgia del trigemino di tipo 1. Pazienti di questo tipo spesso percepiscono sensazioni di bruciore.
  • La nevralgia del trigemino di tipo 2 è caratterizzata da un dolore costante, acuto o bruciante nel 50% degli attacchi.

Questa patologia è caratterizzata da attacchi che si interrompono per un certo periodo di tempo e poi ritornano. Spesso tali attacchi peggiorano nel corso del tempo e i periodi in cui non si presentano si fanno più rari e brevi. Non si tratta di un disturbo fatale, ma di certo è in grado di debilitare chi ne soffre. A causa dell’intensità del dolore alcuni pazienti evitano ogni tipo di attività nel timore di scatenare un attacco.

I farmaci anticonvulsivanti, usati per bloccare il firing neuronale, sono spesso utili nel trattamento della nevralgia del trigemino. Tra questi ci sono la carbamazepina(Tegretol®), l’oxcarbazepina, il topiramato, la fenitoina, il clonazepam, la lamotrigina e l’acido valproico. Anche il gabapentin, pregabalin o il baclofene possono essere usati come coadiuvanti nel trattamento della nevralgia e possono essere somministrati in combinazione con altri anticonvulsivanti.

Gli antidepressivi triciclici come l’amitriptilina o la nortriptilina vengono utilizzati quando il dolore viene descritto come “costante”o “bruciore”. Gli analgesici classici o gli oppiacei di solito non sono di grande aiuto nel trattare le fitte ricorrenti causate dalla NT. Se i farmaci non riescono ad alleviare il dolore oppure producono effetti collateraliintollerabili come stanchezza eccessiva, allora si può raccomandare l’intervento chirurgico.

Altri approcci farmacologici possibili prevedono l’utilizzo di:

  • antispastici, per rilassare la muscolatura coinvolta,
  • iniezioni di botox.

Pillole di analgesia

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